HO VINTO IL PREMIO NOBEL
QUELLA TRISTE SENSAZIONE DI DARE QUASI FASTIDIO…
CONTRO LA PIRAMIDE: LAVORO E CULTURA
La grande riforma dell’istruzione su cui si basa ancora oggi il nostro sistema scolastico, come è noto, è stata elaborata da Giovanni Gentile; è stata completata nel 1924, ha dunque compiuto cent’anni. Non mi sembra ci siano stati grandi festeggiamenti, ma neppure le importanti riflessioni che, invece, l’anniversario avrebbe suggerito. La riforma Gentile, che ha avuto l’indubbio merito di prolungare l’obbligo scolastico anche alla scuola secondaria inferiore (le medie), è stata anche la principale responsabile dell’organizzazione delle superiori, quella che oggi costringe i nostri ragazzi, a poco più di dodici anni, alla faticosissima scelta tra licei, istituti tecnici, scuole professionali, di cui più volte in questo blog abbiamo raccontato le vicissitudini.
Forse è meno noto che Benito Mussolini definì la riforma «la più fascista tra tutte quelle approvate dal mio Governo»; vero è che, a quel punto, il fascismo non aveva ancora approvato le leggi più odiose, ma l’ombra di questa affermazione si staglia ancora oggi, purtroppo, sulla nostra scuola. Non è un caso che in Piccioletta Barca, per parlare di scuola a ragazzi e genitori, abbiamo usato l’immagine della piramide: la nostra scuola è disegnata precisamente così. Giovanni Gentile era un umanista, dunque non stupisce affatto che all’apice della piramide dell’istruzione avesse posizionato il liceo classico; le materie scientifiche stavano un po’ più sotto, l’introduzione a una professione, invece, era per la base. Lo scopo di questa piramide era piuttosto esplicito: la scuola avrebbe dovuto non solamente formare, ma anche selezionare la classe dirigente; la selezione non poteva che avvenire a partire da una separazione gerarchica delle classi sociali.
Moltissime cose sono cambiate nella scuola, in questi cento anni. Si sono succedute riforme su riforme; anzi, talvolta in Italia sembra che un governo non sia degno di questo nome, finché non mette mano all’istruzione. Fino a qualche anno fa il mantra erano le tre ‘i’ (inglese, informatica, impresa): «un tablet in ogni classe», si diceva; più di recente si è cominciato a parlare di merito e di personalismo. Eppure, i cambiamenti sono avvenuti e continuano ad avvenire tutti all’interno del medesimo schema: questa geometria, in cento anni, nessuno l’ha mai realmente scalfita. Per questo Beatrice Gatteschi, in un articolo di qualche settimana fa, usava il termine classista, affermando che classista non è chi vuole mandare i ragazzi al liceo, ma il sistema stesso, che continua a dividere ragazzi e ragazze tra i quattordici e i diciannove anni in fasce ben delineate e ben distinte. C’è, insomma, un classismo sistemico e sistematico, che immagina nel mondo dei giovani l’esistenza di due precise categorie: quelli che dovranno lavorare e quelli che potranno invece dedicarsi alla speculazione filosofica, letteraria, scientifica, giuridica, economica…
Facciamo un esempio. In Italia ci gloriamo di avere il più vasto patrimonio artistico mondiale, il nostro paese è senza dubbio uno scrigno di opere d’arte: ora, sapete in quante scuole Superiori si studia la storia dell’arte? Quattro su oltre trenta: il liceo artistico, il classico, lo scientifico e il liceo delle scienze umane (sebbene, in questi, sia una materia complementare). Viene abbozzata in alcuni istituti tecnici con indirizzo alberghiero e turistico. Significa che una parte rilevantissima dei nostri ragazzi non sentirà mai neppure nominare Benedetto Antelami, il Guercino, Marinetti o Fontana. Per loro bastano Michelangelo, Leonardo da Vinci e quella manciata di artisti che sono riusciti a entrare, loro malgrado, nelle pubblicità commerciali o nei discorsi da bar. L’implicito è questo: a un panettiere non serve a nulla conoscere le opere immortali di Masolino da Panicale o le provocazioni di Bacon. Invece, conoscere la grande musica di Beethoven o di Mozart non serve proprio a nessuno, tranne ai musicisti, visto che la materia è del tutto assente, se non nei conservatori e nei licei musicali.
Che in un’epoca e in un Paese come il nostro permanga ancora – istituzionalizzata, ma ben nascosta nella retorica degli open day – questa separazione tra lavoratori e intellettuali è un problema piuttosto grosso. Anzitutto dal punto di vista pratico: il mondo del lavoro cambia in modo così rapido che ciò che la scuola insegna rischia di essere già vecchio, ora che gli studi si concludono: selezionare le competenze in base alla professionalità è un azzardo.
Ma c’è un motivo molto più profondo, un motivo che riguarda tanto il lavoro, quanto il pensiero. I cambiamenti a cui il mondo del lavoro è costantemente sottoposto, infatti, rischiano di farci smarrire una soglia, un salto fondamentale, l’unica grande svolta che abbia mai riguardato il lavoro umano. Ne ha parlato Hannah Arendt, in un testo capitale pubblicato nel 1958: The Human Condition (tradotto con il titolo significativo di Vita activa). Per la Arendt ci sono due forme diverse del lavoro. La prima è quella che copre il fabbisogno biologico, sottraendo l’essere umano dalla privazione; la seconda è invece l’azione (la vita activa, appunto), che incomincia quando, una volta risolti i bisogni primari, l’umano incomincia a collocarsi nel mondo, nel rapporto con tutti gli altri esseri umani: è il luogo sia politico, sia della riflessione su se stessi. Rileggendo l’antichità classica, la Arendt sostiene che il politico incomincia quando finisce la sfera delle necessità biologiche: non a caso privacy, che per noi significa ‘personale’, in realtà, etimologicamente, vuol ‘privazione’. Anche un altro autore molto vicino a Hannah Arendt, Jan Patočka, dice qualcosa di simile. Egli sostiene che esiste un tempo (che definisce pre-istorico) in cui l’essere umano non sperimenta la problematicità del mondo e di se stesso, perché si occupa esclusivamente della propria sopravvivenza. È un mondo, dice Patočka, «che ha un senso dato, magari modesto, ma certo». Quando, invece, liberandosi dallo stato di pure necessità, l’essere umano incomincia a farsi domande, a scegliere chi essere e non solamente cosa fare, allora incomincia davvero la storia.
Il problema, dice Hannah Arendt, è la modernità è il tempo in cui per lo più abbiamo risolto la questione della sopravvivenza ma, invece che occuparci finalmente di immaginare insieme il mondo, abbiamo reso qualunque cosa bisogno, rispingendo l’essere umano nuovamente sotto il giogo della necessità. Il mondo del consumo e dello scarto è il mondo che ha abolito la separazione tra le necessità biologiche e il senso della vita, ma anche il confine tra il politico e il privato, incatenando ognuno all’acquisto di beni diventati improvvisamente necessari.
Torniamo a noi. Se le riflessioni di Hannah Arendt hanno qualcosa da dirci è anzitutto questo: il lavoro e il pensiero intellettuale non sono due mondi separati; il pensiero è vita activa e l’attività è sempre pensiero. È giusto combattere la disoccupazione, tuttavia non basta. Né basta più proteggere i lavori dalle attività disumanizzanti e dagli ambienti lavorativi tossici. Perché la vera schiavitù dei moderni è quella necessità del consumo in cui la modernità li ha tutti rinchiusi, quella figura del vivere in cui tutto è necessario e tutto è vitale, persino l’ultimo smartphone. Solo la cultura può restituire a tutti la vita activa, la dignità di collocarsi nel mondo in modo critico e insieme costruttivo.
Se le intuizioni della Arendt sono corrette, allora lavoro e cultura possono salvarsi solamente insieme. L’unico modo per salvare il lavoratore è mostrargli il suo valore politico; l’unico modo per salvare l’intellettuale, parimenti, è ricordargli che egli sta rispondendo a una grande sfida universale, storica e pratica. Certo questa cultura di cui c’è bisogno – come ripetiamo sempre ai ragazzi – non è erudizione, ma una seria e profonda messa a tema dell’umano, un accesso di ciascuno alla propria soggettività: una cultura popolare che sappia non essere banale, una cultura alta che sappia non essere elitaria. Viceversa: se la Arendt ha ragione, allora il modo più semplice per mantenere schiavi i cittadini è privarli della cultura, convincendoli che la loro esistenza è e sarà sempre una rincorsa delle infinite necessità che il sistema propone e impone.
Noi proviamo a remare in direzione ostinatamente contraria, nella speranza che si possa finalmente immaginare – e, chissà, anche realizzare? – una geometria diversa.