
L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA MUSICA (in collaborazione con Pinuccia Gelosa)

DILIGITE IUSTITIAM
LA PIRAMIDE DEL CORAGGIO

È questo il titolo di una slide che ogni anno, in questo tempo – un tempo-incubo per me: regolarmente, immancabilmente, inesorabilmente; un tempo dal quale, nonostante gli sforzi, non riesco mai a prendere le distanze che dovrei –, proponiamo a genitori e ragazzi nell’incontro di orientamento alla scelta della scuola superiore. Ogni anno, le nostre parole, tonde e gioiose, una dopo l’altra, come bolle di sapone, sgorgano dal cuore, cercando di salire leggere, di distogliere gli sguardi di piccoli e grandi da terra e di indirizzarli all’infinito, schivando faticosamente i soliti luoghi comuni, i soliti pregiudizi, i soliti tristi consigli contro cui molte di esse sono inesorabilmente condannate a infrangersi…
La piramide del coraggio, verde, è preceduta da un’altra piramide, rossa, che si chiama piramide della paura. Entrambe le piramidi sono divise in tre settori paralleli: in cima, corrispondente al vertice, è lo spazio dei professori; la base ampia è riservata ai genitori e, schiacciata lì nel centro, è una fascetta che ha per protagonisti i ragazzi. Sì, schiacciati fra la paura dei professori e quella dei genitori, che gravano dall’alto e dal basso con due grosse frecce, discendente la prima, ascendente la seconda; schiacciati anche fra il coraggio dei professori e quello dei genitori ma, se nella piramide della paura, lo spazio di professori e genitori è di superficie pressoché uguale, nella piramide del coraggio, lo spazio della famiglia è spropositatamente più ampio e solo la loro freccia insiste sui ragazzi: il che significa che, a nostro modesto avviso (modesto, ma ormai di una certa età…), nella scelta della scuola superiore il coraggio gioca un ruolo fondamentale e deve venire dai genitori!
Perché non viene? Perché questo coraggio di anno in anno si fa più flebile, sbiadito, timido?
Di slancio, mi viene da dire che, come un tempo i genitori avevano paura di droga e cattive compagnie, così ora mi pare abbiano paura dello studio! Sembra una battuta iperbolica, ma non lo è: sempre più spesso riscontro nei genitori il timore che il figlio, sottoposto alla fatica dello studio e all’impegno della scuola, possa sentirsi oppresso, depresso, angosciato. Credo che, in parte, questo timore sia figlio del covid: è altissimo il numero dei giovani che, già a partire dalla scuola primaria, fino ad arrivare all’università, usufruisce di un sostegno psicologico; d’altra parte, credo sia espressione di una società adulta che sempre meno guarda ai libri come ai migliori amici che un figlio possa frequentare.
I professori sono sempre eccessivamente cauti nel loro consiglio orientativo, sul quale non mi trattengo perché gli sono profondamente ostile e ne ho trattato già diffusamente lo scorso anno: noto che, di anno in anno, in periferia continua a crollare il consiglio di frequentare i licei, mentre, a parità di prestazioni e conoscenze, resta piuttosto stabile nelle cerchie più interne della città…
E va bene: non apprezzo proprio un professore che dichiari: “qui dentro nessuno può andare a fare il liceo scientifico né tantomeno il classico”; non credo che questa affermazione corrisponda al vero, mi arrabbio ma non posso fare proprio nulla per fargli mutare parere. Lasciamo da parte i professori: che sia timore, il loro, o mancanza di visione, o mancanza di fiducia, o esasperazione, dal loro vertice aguzzo, di paura ne piove parecchia sui ragazzi; di coraggio pochissimo. Occhi nani: non capisco, ma mi adeguo.
Le parole che invece mi addolorano profondamente sono quelle di mamme e papà: «X ora non passa molto tempo sui libri e non ama ancora leggere, quindi non vorrei forzarlo a scegliere una scuola troppo difficile che per lui potrebbe essere troppo»; «non vorrei che Y incappasse in una grande delusione che lo porti a abbandonare gli studi.» «I professori di mio figlio Z escludono per lui tutti i licei per l’impegno che richiedono, visto che Y non studia molto al momento». «Ultimamente W chiede di fermarsi con lo studio alla maturità e per tanto stiamo valutando istituti tecnici». «Io cerco di lasciare K libero nella sua scelta…» «ma voi della Pb cosa pensate di mio figlio?» X, Y, Z, K e W sono bravi ragazzi che frequentano la Pb da anni e con questi genitori, i miei soci e io ci siamo sempre espressi positivamente, sotto ogni punto di vista.
Sono bravi ragazzi, seri, costanti, che seguono gli incontri con interesse, che si alzano la mattina del sabato per venire all’Accademia e, nel tempo, hanno imparato a intervenire, a dire la loro con serenità; scrivono in italiano corretto e sanno fare di conto: ingredienti tutti che ritengo sufficienti a consentire la frequentazione di un liceo. La frequentazione del liceo, diciamolo una volta per tutte, nel nostro sistema scolastico malato cronico di miopia — sistema che dovrebbe subire una operazione di raffinata chirurgia per mano di un Ministro dell’istruzione veramente illuminato, preparato, colto! — è l’unica che consenta lo studio della filosofia, della storia dell’arte, della lingua e letteratura classica (di musica ahimè non se ne parla, se non nelle poche scuole per pochi adepti): di quelle grandi materie che sono, insieme, doni e strumenti per vivere meglio e per muoversi con agio in ogni altro campo; di quelle grandi materie che, al pari degli Appennini, sono la spina dorsale del nostro Bel Paese. E, per favore, non tacciateci di classismo! Non noi, che amiamo i licei, siamo classisti: classisti sono quelli che hanno deciso che ci vogliono più di trenta indirizzi di scuola superiore. Classisti sono quelli che hanno deciso che odontotecnici, meccanici, ragionieri, cuochi, estetisti, informatici, elettricisti, magazzinieri, grafici, pescatori, ottici, interpreti… non possano conoscere l’arte, non possano commuoversi davanti a un affresco, non possano guardare una statua e ascoltare una musica comprendendo in profondo, pensare e ragionare con categorie filosofiche, non possano recitare una poesia di Catullo all’amato né, domani, leggere favole e miti ai loro bambini, ma possano solo muovere abilmente e rapidamente le loro mani per il bene dei portafogli loro e di quelli di chi di loro abilmente si servono.
Classisti sono quelli che disegnano i ragazzi che vanno al liceo classico o scientifico come gobbetti e secchioni, polverosi e magari con qualche ragnatela che per dna pende dalle loro giovani giunture.
Come ce lo immaginiamo uno studente di liceo, cari genitori? Un genio, magari un po’ disadattato, che dal primo giorno di prima saprà dissertare di scienza e filosofia, e poi correrà a casa per chiudersi triste e solo nella sua stanzetta, chino sui libri fino a consumare i suoi poveri occhietti che richiederanno presto un grande paio di occhiali?
Io, personalmente, un ragazzo che va al liceo lo vedo – e ne vedo, e ne ho visti tanti ma tanti, ma tanti nella mia vita… – così: un ragazzo di capacità assolutamente normali, con le sue voragini culturali, dentro e fuori dalla cerchia dei Navigli, che guarda a sé con un po’ di rispetto e che studia con costanza. Punto. Perché — grande rivelazione! -, la costanza nello studio è condizione necessaria e sufficiente per frequentare con soddisfazione un liceo. Non bisogna già sapere tutto per andare al liceo; se no, cosa si andrebbe a fare al liceo?
Scrivo e mi viene la tentazione di cancellare perché quello che scrivo mi sembra la fiera dell’ovvio… ma non lo faccio, perché non lo è, non lo è più!
Guardiamo queste frasi: «X ora non passa molto tempo sui libri e non ama ancora leggere». «Y non studia molto al momento». «Ultimamente W chiede di fermarsi con lo studio alla maturità». Le parole che ho evidenziato sono avverbi, avverbi di tempo e, come spiego sempre ai ragazzi, gli avverbi sono straordinari paletti cui aggrapparsi per circoscrivere spazi e tempi in cui muoversi con sicurezza. “Ora, ancora, al momento, ultimamente” suggeriscono che non sarà sempre così, suggeriscono che c’è una linea del tempo lungo la quale i nostri figli, come abbiamo fatto noi, si muoveranno in un’unica direzione. Quando li abbiamo presi in braccio la prima volta, non sapevano leggere… né parlare e neanche camminare: e hanno imparato, tutti hanno imparato! Anche a studiare si impara e si impara a stare seduti ore a un tavolo e la cosa più bella del mondo è che si impara anche a essere seri, a assumersi le proprie responsabilità, a guardare a sé con affetto e stima; si impara a sognare e a desiderare. Ma bisogna che i ragazzi abbiano la fiducia dei loro genitori, perché a loro guardano, sempre e comunque. La parola dell’educazione è coraggio: se tremiamo davanti ai figli non li aiutiamo; non li aiutiamo in nessun aspetto della loro vita, non solo nella scuola che, della vita, è una parte importantissima, ma non è tutto. Tanti genitori, tante mamme soprattutto, mi raccontano il loro rammarico per non avere frequentato la scuola che desideravano, alcuni di loro impediti dalle difficoltà economiche della famiglia, molti ingabbiati dai giudizi degli adulti che li circondavano. Questa catena va interrotta!
Ho letto recentemente che in Italia l’ascensore sociale è bloccato da anni e meno di quattro genitori su dieci immaginano per i loro figli una situazione migliore della propria: questo è un dato triste perché i ragazzi, oggettivamente meno preparati dopo la didattica a distanza, sono sempre e comunque capaci di ascoltare, hanno voglia di pensare e di parlare e di capire; sono sciocchini alle medie esattamente come lo eravamo noi, forse sono più soli, ma sono belli. Se non leggono, leggeranno; se non studiano, studieranno; se non sanno, sapranno… il futuro è un tempo importante del nostro ricco sistema verbale; basta aggrapparsi come naufraghi al presente! I ragazzi arriveranno ovunque sia permesso loro di sognare, a patto di avere intorno degli adulti preparati e appassionati che credano in loro, che li spronino, che si assumano insieme a loro il rischio di scelte importanti e poi siano al loro fianco, giorno dopo giorno. Questo meraviglioso impegno che si chiama semplicemente educazione deve essere saldo nelle mani della comunità che è più grande della scuola; ma sono i genitori a stringere il capo della corda: loro per primi devono infondere nei figli la certezza che la vita sia un bene da vivere alla grande, non al minimo; loro devono continuamente ripetere quella frase meravigliosa che il Galileo di Brecht pronunciò pensando al suo piccolo grande amico Andrea: «Chi vive in grande trova anche il modo di procurarsi le scarpe più grandi!».
La Piccioletta barca, a dispetto del suo nome, è un magazzino inesauribile di scarpe grandi! Vorremmo che lo fosse anche la scuola.
Cari genitori… coraggio!