
LEGGERE OLTRE LE PERCENTUALI

PROVE DI DEMOCRAZIA
RHAPSODY IN BLUE: L’ENERGIA DI UNA METROPOLI E DI UN’ORCHESTRA

Se esistesse un modo di rendere a parole il celeberrimo glissando di clarinetto con cui si apre la composizione di Gershwin, sarebbe l’incipit ideale di questo articolo. Dovendo, tuttavia, rinunciare a riportare tale straordinaria trovata artistica — attribuita da molte fonti a Ross Gorman, il clarinettista che interpretò la Rapsodia al suo debutto — dovrò limitarmi a introdurre l’opera con alcuni importanti cenni alla biografia del suo realizzatore.
Figlio di ebrei russi immigrati a New York, Jacob Gershovitz (nel tempo il nome fu cambiato in George Gershvin e, infine, in Gershwin) nacque il 26 settembre 1898 a Brooklyn e trascorse la sua infanzia spostandosi da un quartiere all’altro di New York, a causa delle fallimentari aspirazioni lavorative del padre, e condividendo i giochi di strada con i tanti altri bambini di umili origini come lui. La frenetica e caotica vita metropolitana influenzerà profondamente lo stile di molte composizioni di Gershwin e, in particolare, della Rapsodia in blu.
Fu l’ingresso di un pianoforte in casa, in realtà destinato al fratello maggiore Ira, a introdurre definitivamente nel mondo della musica il tredicenne George. Nonostante un’educazione musicale poco coerente e strutturata, questi progredì rapidamente in ambito esecutivo, tanto da trovare un impiego in qualità di «song plugger»: prima che venisse inventata la registrazione fonografica, l’unico possibilità di diffusione per la musica popolare consisteva nella ripetuta esecuzione dal vivo da parte di strumentisti, i «song pluggers», appunto. Concentratisi nei pressi della zona dei teatri, nella 28th Street, tra la Broadway e la Sixth Avenue, gli editori musicali newyorkesi producevano di continuo dei motivi che venivano “dimostrati” ai clienti — direttori, impresari, cantanti — che poi potevano acquistarli. Poiché le stanze di cui ciascun editore disponeva per tali dimostrazioni erano raramente insonorizzate, camminando per la 28th Street si veniva investiti da un bizzarro frastuono, simile al clangore prodotto dalla percussione di padelle di latta, che valse alla zona il soprannome di Tin Pan Alley, poi esteso all’intera industria della canzone americana della prima metà del Novecento. È innegabile che l’impiego in qualità di plugger abbia in parte contribuito alla notevole capacità di Gershwin di produrre grandi temi, spesso molto semplici ma al contempo di straordinaria ricchezza espressiva, considerati da diversi studiosi come le creazioni di uno dei migliori melodisti del secolo. Proprio durante il periodo trascorso a Tin Pan Alley cominciò a emergere il talento compositivo di Gershwin, il quale scrisse le sue prime canzoni, nessuna delle quali, però, venne pubblicata dal suo editore e datore di lavoro, unicamente interessato alla sua attività di plugger. Abbandonato tale impiego d’ostacolo alle sue ambizioni creative, Gershwin cominciò a farsi strada nel mondo del teatro, dapprima come pianista accompagnatore, poi come compositore di operette; queste non conobbero dapprima particolare fortuna, ma alcune canzoni da esse tratte riscossero notevole successo. In questo modo, Gershwin riuscì a trovare posto sulla scena della musica teatrale, al pari degli allora celebri maestri del genere Irving Berlin e Jerome Kern. Il 1˚ novembre 1923, il recital di canto di Eva Gauthier all’Aeolian Hall di New York lo consacrò definitivamente: debuttando in una sala da concerto in qualità di pianista accompagnatore e compositore allo stesso tempo, ricevette il plauso della critica e del pubblico e attirò su di sé l’attenzione di Paul Whiteman.
Paul Whiteman era il bandleader della Palais Royal Orchestra, la band più famosa del periodo, nota, in particolare, per il suo stile esecutivo, che lo stesso Whiteman aveva definito «symphonic jazz». Da sempre interessato a innalzare il jazz al livello della musica colta di provenienza europea, prelevandolo da sale da ballo e cabaret, per poi lustrarlo a fondo, Whiteman aveva in mente di dare un concerto interamente dedicato alla musica jazz proprio all’Aeolian Hall, intitolato Experiment in modern music; centro del programma sarebbe stata la prima esecuzione di un opera scritta ad hoc in questo nuovo linguaggio moderno. George Gershwin parve l’uomo più adatto a realizzare un simile progetto. Whiteman commissionò l’opera a Gershwin sul finire del 1923 e questi, pur ancora carente in termini di preparazione teorica e di studi formali di musica, decise di realizzarla in uno stile che potesse esprimere a pieno il clima della propria patria. Si stava appunto svolgendo, in quel periodo, un vivace dibattito circa l’inesistenza di un genere specificamente americano, essendo il Nuovo Mondo ancora fortemente debitore, dal punto di vista culturale, nei confronti del continente europeo; Gershwin, dunque, desideroso di contribuire alla creazione di tale tanto agognato nuovo genere, pensò di utilizzare un tipo di composizione tradizionalmente legato, nella prassi compositiva colta (e sempre europea, del resto), all’espressione di una determinata cultura o nazione, la rapsodia.
Originariamente intenzionato a intitolarla American rhapsody, Gershwin fu persuaso dal fratello Ira, a sua volta ispirato dai dipinti di James Abbott McNeill Whistler, a mutare il titolo in Rhapsody in blue: la nuova denominazione, oltre a esprimere, in modo immediato, una tonalità emotiva legata allo spettro cromatico, risultava particolarmente adatta al genere utilizzato, ricco di quelle blue notes ereditate dalla tradizione blues, che ne caratterizzavano spiccatamente il sound complessivo. È probabile che la scelta del genere compositivo e, quindi, del titolo sia stata influenzata anche dall’opera Negro rhapsody di Rubin Goldmark — uno dei maestri di Gershwin -, il quale tentò di fondere la musica “colta” bianca di origine europea con gli stilemi provenienti dalla tradizione spiritual afroamericana. Tale volontà di combinazione stilistica costituisce proprio uno dei tratti essenziali dell’opera gershwiniana ed è facilmente rinvenibile nei diversi ambiti di scrittura melodica, delle armonie e dell’orchestrazione.
Un aneddoto piuttosto fantasioso vuole che Gershwin, non avendo inizialmente accettato la commissione, avesse letto, sul New York Herald Tribune del 4 gennaio 1924, un articolo in cui si annunciava che il concerto di Paul Whiteman si sarebbe tenuto il successivo 12 febbraio e che lo stesso Gershwin avrebbe presentato un’inedita composizione jazz per l’occasione; intrigato dalla prospettiva di tale sfida, Gershwin avrebbe, infine, accettato l’incarico e completato il lavoro in meno di un mese. Diversi studiosi concordano, invece, sul fatto che Gershwin avesse cominciato a lavorare alla sua rapsodia già nel dicembre del 1923, per poi affrettarsi nel suo impegno una volta resa pubblica la data del concerto.
Una volta terminata la partitura, scritta per due pianoforti, Gershwin la consegnò a Ferde Grofé, arrangiatore ufficiale dell’orchestra di Whiteman, che aveva il compito di orchestrarla. Vista la particolarità del complesso di Whiteman, era pratica comune che l’orchestrazione del suo repertorio fosse affidata al suo specifico arrangiatore. L’opera consegnata da Gershwin, inoltre, mancava di alcune parti affidate al pianoforte solo, vere e proprie cadenze solistiche nello stile del concerto per pianoforte e orchestra, che Gershwin contava di improvvisare — come poi fece — nel corso della prima esecuzione.
Il debutto all’Aeolian Hall, nella cui platea sedevano personalità musicali del calibro di Sergej Rachmaninov e Leopold Stokowski, fu un vero successo: la brillantezza, il dinamismo e la prorompenza del ritmo affascinarono il pubblico, mentre i molti musicisti presenti furono convinti, in particolare, dall’inventiva e dalla forte carica innovativa dell’opera. Da parte sua, la critica accolse positivamente la Rapsodia, ma stemperò l’entusiasmo collettivo avanzando alcune riserve circa l’immaturità teorica del compositore, tradottasi nella difficoltà di creare un tutto coerente e omogeneo, che lo avevo condotto a realizzare una sorta di collage di motivi eterogenei, in cui i collegamenti fra i diversi tunes (canzoni) risultavano piuttosto deboli. Il dirompente successo della Rapsodia in blu, tuttavia, non fu sensibilmente intaccato dalle riserve della critica e permise al brano, anche grazie a due successive orchestrazioni per orchestra sinfonica, di giungere alla fama di cui ancora oggi gode.
Anche buona parte della critica ha mutato parere, rinvenendo nell’atteggiamento compositivo di Gershwin non tanto un’incapacità di gestire al meglio il materiale tematico, quanto più la volontà di privilegiare contrasti anziché continuità, conferendo coerenza all’intera opera tramite procedimenti alternativi a quelli del tradizionale sviluppo sinfonico del materiale musicale. Altro aspetto di notevole interesse, evidenziato da alcuni studiosi, è il fatto che Gershwin non abbia semplicemente fuso, nella Rapsodia, musica “colta” e musica popular, ma che le abbia mescolate nel suo lavoro mantenendone le specificità e sottolineandone, quindi, la pari dignità. Lo stesso Gershwin, infatti, parlando della nascita della sua celebre composizione disse:
“Improvvisamente mi venne un’idea. C’era stato tanto chicchiericcio sui limiti del jazz, per non parlare degli evidenti fraintendimenti sulla sua funzione. Il jazz, dicevano, deve essere in tempo periodicamente rigoroso, deve aderire ai ritmi della danza. Io decisi, se possibile, di confutare una volta per tutte tale malinteso con una dimostrazione indiscutibile. Ispirato da un simile obiettivo, iniziai a comporre rapidamente; non avevo in mente nessun piano, nessuna struttura alla quale la mia musica si sarebbe dovuta conformare. La rapsodia, come vedete, iniziò come scopo, non come progetto.”
La struttura del brano, sempre a detta dell’autore, si delineò solo successivamente e fu ispirata dai tanti suoni che affollavano la quotidianità delle metropoli americane:
“Ero sul treno, con i suoi ritmi metallici e il suo sferragliare cadenzato, che spesso sono così stimolanti per la fantasia dei compositori… di frequente sento la musica uscire dal cuore del rumore. Ed ecco che improvvisamente udii — e vidi anche fissata su carta — la completa struttura architettonica della rapsodia, dall’inizio alla fine. Nessun tema nuovo mi balzò alla mente, ma fu come lavorare sul materiale tematico che avevo già pensato e provare a concepire la composizione come intero. Io l’ho sentita come una sorta di caleidoscopio musicale dell’America, del nostro melting pot, della incomparabile vivacità della nostra nazione, del nostro blues e della pazzia della nostra vita metropolitana.”
Il «caleidoscopio» di cui parla Gershwin non è, dunque, una soluzione omogenea dei vari generi musicali che si potevano ascoltare all’epoca, quanto il risultato della precisa ricerca volta a restituire un’immagine fedele della grande eterogeneità che caratterizzava la nazione americana e che Gershwin, figlio di immigrati, aveva imparato a conoscere fin dall’infanzia, giocando per le strade di New York insieme a bambini di ogni provenienza.
Le quattro parti in cui la Rapsodia è solitamente suddivisa vengono così a coincidere con un susseguirsi di emozioni suscitate dalla vita nella Grande Mela: la prima parte, caratterizzata da diffusa varietà ritmica e armonica e dalle voci beffarde dei primi strumenti solisti fa pensare al risveglio della metropoli, preludio alla pulsante e frenetica vita cittadina si dispiega nella seconda parte, senza un attimo di pausa. Poi, all’improvviso, un episodio lirico del tutto inaspettato, il celebre Andantino moderato, spezza la concitazione precedente, narrando un momento di calma contemplazione. Da essa, però, sorgono sentimenti di inquietudine e mistero, che lasciano presagire il climax di tensione che sfocerà nella febbrile agitazione della quarta e ultima sezione. La Rapsodia termina con l’ultima grandiosa affermazione del primo tema, nella stessa tonalità di Sib dell’incipit, comunicando un senso di circolarità e di possibile moto perpetuo, di continuazione della frenesia cittadina.
È fondamentale sottolineare la controtendenza della posizione gershwiniana rispetto alla riflessione di diversi intellettuali suoi contemporanei sulla metropoli e sulle pericolose derive sociali che la vita in essa implica: mentre poeti e scrittori del mondo anglosassone, quali Thomas Stearns Eliot o Francis Scott Fitzgerald, denunciavano il materialismo imperante e la progressiva perdita di umanità nei soffocanti ambienti urbani, Gershwin riuscì a scorgere, in un grande slancio di positività, una possibilità di bellezza e di esperienze autenticamente umane, fondate sulla capacità di instaurare un rapporto fecondo con l’ormai necessaria realtà contemporanea.