
QUANDO LA LEGGE È AMICA

NOI, ENERGIA: IL TEATRO IN ACCADEMIA
HOMO, HOMINI LUPUS AUT ANGELUS?

Il percorso sulla legge sarebbe incompleto se non ci occupassimo di chi nel corso della storia ha rifiutato esplicitamente la possibilità che esista un potere costituito che, dall’alto, impone ai cittadini le norme secondo cui vivere. Eccoci, dunque, di fronte al pensiero anarchico, una sorta di anomalia nel nostro percorso, ma anche un’anomalia nella storia stessa dell’umanità. Così è stata sempre considerata, da quando ha incominciato a portare la sua critica radicale nel seno della modernità.
Certo, l’anarchismo non predica l’assenza della legge, ma piuttosto l’assenza di un governo, di qualunque sovranità che non sia quella che i cittadini condividono tra loro; eppure, senza sovranità, le leggi non trovano chi le promulghi.
Un pensiero anarchico, in qualche modo, è sempre presente nella lunga storia umana: l’idea che ogni forma di autorità sia in realtà un esercizio di oppressione è antica come il mondo. Il termine ἀναρχία compare già nell’Iliade, nelle Storie di Erodoto, nei tragici: ricordiamo Antigone, dove il vocabolo compare a indicare il pericoloso comportamento della ragazza che, seppellendo il fratello, sfida il potere costituito. «’Aναρχίας δὲ μεῖζον οὐκ ἔστινκακόν» dichiara Creonte, che di quel potere costituito è detentore: «Non c’è male peggiore dell’anarchia, essa distrugge la città, sovverte le famiglie, rompe e volge in fuga l’esercito in battaglia»; Platone e Aristotele ne parlano nelle loro opere politiche.
Ma c’è un momento molto preciso in cui le idee anarchiche si organizzano e diventano un movimento: la trasformazione dei poteri della Modernità. Il punto di svolta, spieghiamo ai ragazzi, è il pensiero di Thomas Hobbes. Il pensatore inglese, vissuto durante la grande tragedia delle guerre di religione in Europa, si trovò tra le mani un compito complesso: de-sacralizzare il sovrano e, al contempo, legittimarne l’esistenza. Ecco che Hobbes riprende reinterpretandola la figura del Leviatano: una sorta di essere potentissimo, un principe di questo mondo, al quale i cittadini devono sottomettersi. Non per la sua sacralità, né perché un qualche nume (ricordate Hammurabi) lo abbia prescelto, ma perché, senza il sovrano, la vita, semplicemente, non è possibile. Gli esseri umani, infatti, avverte Hobbes, sono lupi l’uno per l’altro (LUPUS EST HOMO HOMINI!, aveva già avvertito il commediografo Plauto, nel II secolo a.C. nei versi dell’Asinaria): ciascuno portatore di un desiderio infinito che fatalmente si scontrerà con l’infinito desiderio dell’altro; in assenza di un regolatore esterno, se restano nello stato di natura, gli esseri umani sono costretti a un conflitto infinito. Hobbes riesce benissimo in questo doppio tentativo di de-sacralizzare e di fondare il potere, ma ciò che non riesce più a fare è porre un limite all’autorità: un governo crudele e tirannico è sempre meglio di una rivoluzione, perché la rivoluzione porta a un caos più pericoloso di qualunque sopruso. Molti filosofi contemporanei, guardando a Hobbes, vi leggono la fondazione della così detta biopolitica: un principio di autorità assoluto che si fonda sulla debolezza dei cittadini.
È proprio in questo contesto, ossia come contrasto a questo eccesso di fondazione del politico, che le idee anarchiche si aggregano in una vera e propria teoria. Nasce così l’anarchismo, la teorizzazione della possibilità che gli esseri umani sempre hanno, di per sé, di costruire insieme un mondo ordinato e felice, non regolato dalla competizione, ma dalla solidarietà. Ciò che gli anarchici accusano è proprio questa fondazione dello stato sulla fragilità della vita: si tratta solo di un plagio attraverso cui una classe limitata di individui tiene in scacco l’intera umanità.
Per quanto possa apparire singolare, il pensiero anarchico si precisò ancora di più dopo la fine dell’epoca delle rivoluzioni. William Goldwin, inglese, guardando come le cose si erano evolute in Francia durante l’Ottocento, intuì per primo che il governo è in grado di cambiare aspetto esteriore (dalla monarchia ai partiti rivoluzionari), ma non muta l’impostazione di fondo: maschere cadono a favore di altre maschere. Proprio per questo, benché spesso gli anarchici si allearono con chi lottava per la giustizia sociale, essi furono puntualmente traditi al termine dei conflitti. Accadde così, per esempio, dopo la Rivoluzione d’ottobre, quando i soviet, che dovevano essere gruppi di cittadini che si auto-governavano, diventarono monopolio dell’unico Partito Comunista Sovietico. Gli anarchici più radicali, seguendo le idee di Bakunin, prima combatterono insieme ai bolscevichi, ma poi furono costretti a fuggire altrove: non c’era spazio, nell’Unione Sovietica, per quel dissenso che, per l’anarchismo, è generativo di un nuovo equilibrio tra le libertà.
Sarebbe bello trovare le prove storiche dell’efficacia o dell’impossibilità di un’organizzazione anarchica della società, ma, in verità, non ne abbiamo. Ci furono, sì, episodi limitati (nel tempo e nello spazio) in cui un gruppo di anarchici riuscì a gestire il potere, ma puntualmente furono soffocati nel sangue. Accadde così durante la Comune di Parigi, quando la capitale della Francia, approfittando di un vuoto di potere, visse per tre mesi – da marzo a maggio del 1871 – senza alcuna autorità se non quella auto-costruita dai cittadini. La Comune istituì l’istruzione gratuita, sciolse le banche, la polizia e ogni altra forma di potere – politico o economico – organizzato; ma l’esito dell’esperimento non lo conosceremo mai: presto l’esercito si organizzò e in pochi giorni uccise tutti gli anarchici: si parla di più di ventimila morti. Per un tempo più lungo, ben tre anni, ci fu un esperimento anarchico anche in Ucraina: gli anarchici delusi che fuggirono dalla Russia si organizzarono attorno a un leader carismatico, il contadinoNestor Machno, che distribuì la ricchezza dei ricchi ai poveri e costruì uno stato anarchico di contadini. Nel 1921 i bolscevichi russi si impadronirono dell’Ucraina e riportarono la popolazione sotto il controllo del Partito.
Alla radice dell’anarchia sta una fiducia estrema nell’essere umano e nelle sue possibilità: senza i governi, dopo un tempo breve di confusione, la società umana è sempre in grado di trovare l’equilibrio migliore e sarebbe sempre anche in grado di modificarlo, in una forma di vita comune dinamica e libera. È quanto scrive Errico Malatesta, famoso anarchico italiano discepolo di Bakunin, che scontò le sue idee a Ventotene, proprio negli anni e nei luoghi in cui altri avversari del fascismo scrivevano il primo manifesto dell’unità dell’Europa. Nel suo manifesto, però, non c’è alcuna riforma delle istituzioni: esse devono semplicemente scomparire, per lasciare lo spazio all’esercizio vero della libertà e della responsabilità dei cittadini. Nel suo manifesto, che pubblica nel 1919, Malatesta propone l’abolizione della proprietà privata, di ogni forma di istituzione (dalla polizia ai giudici, dai politici agli insegnanti), di ogni nazionalismo e di ogni superstizione religiosa.
In Italia non si costituì mai un esperimento di società anarchica, ma il movimento anarchico, che esiste ancora oggi, fu protagonista di una stagione complessa, quella del Sessantotto, con il suo portato di violenza e terrorismo. Da un lato, molti anarchici si macchiarono di episodi di terrorismo, di attentati dinamitardi: nel 1969 si contarono, nella sola Milano, diciottoattentati rivendicati da loro. Il più delle volte, però, furono attacchi ai simboli delle istituzioni: palazzi, monumenti, luoghi e non persone. D’altro canto, però, nella confusione di quegli anni e nella strategia del terrore, molte stragi furono attribuite loro, benché avessero una matrice politica opposta. Così accadde per la strage di Piazza Fontana, a Milano: il primo sospettato fu proprio l’anarchico Giuseppe Pinelli, del tutto estraneo, che cadde misteriosamente dalla finestra del commissariato dove veniva interrogato. Fu poi la volta di Valpreda, a lungo indagato e poi prosciolto da tutte le accuse. Il commissario Calabresi, responsabile delle prime indagini, fu ucciso da alcuni esponenti di Lotta continua.
La complessa vicenda di Piazza Fontana mostra fino a che punto le istituzioni temono l’anarchismo, ma ci pongono una domanda importante: che spazio c’è, nelle nostre società, per il dissenso, che spazio c’è per chi, semplicemente, non vuole vivere secondo le regole?
Forse, proprio questa domanda ci permette di riconoscere la necessità che qualcuno conservi uno sguardo anarchico, affinché l’esercizio del potere non sia dato per scontato: l’esistenza di organizzazioni anarchiche, ovviamente a patto che rinuncino alla violenza, è un sintomo di una società che fa spazio a pensieri diversi e plurali.
Con un’attenzione, tuttavia: oggi esiste un anarchismo tutto particolare, che viene chiamato spesso anarco-capitalismo. Raccoglie persone che rifiutano ogni tipo di imposizione istituzionali ma che, al contempo, amano proprio la competizione e il conflitto. Se Malatesta, formulando il suo manifesto anarchico, chiedeva che fossero garantiti ai più fragili i diritti fondamentali, questo nuovo paradossale anarchismo giustifica la libertà di essere razzisti, di eliminare i più deboli, di vivere secondo la legge del più forte. Negli Stati Uniti, in particolare, i gruppi che difendono il proprio diritto a non avere documenti, a non rispondere alla polizia e a non pagare le tasse, sono gli stessi che pretendono il libero e incontrollato utilizzo delle armi. Forse, però, il paradosso più grande è rappresentato dal presidente argentino Milei che, benché sia la massima carica di un governo democratico, si definisce egli stesso anarchico e capitalista.