
IL TEMPO

QUANDO LA LEGGE È AMICA
UNA LINEA RETTA IN CIÒ CHE VI È DI PIÙ TORTUOSO

Il terzo vertice del triangolo che stiamo costruendo, guidati dai Miserabili, è l’ispettore Javert. Prima guardia carceraria, poi commissario di polizia, infine spia infiltrata tra i rivoluzionari di Parigi, la vita di Javert, più che una vocazione, ha i tratti della maledizione del destino. Se Monsieur Myriel appare all’inizio del romanzo, genera il cambiamento e poi scompare, Javert torna continuamente, nella finzione narrativa, come un tarlo ineliminabile. O come l’ombra di un oscuro senso di colpa da cui chi ha commesso reato non può più liberarsi, l’incarnazione di una macchia che non si riesce mai del tutto a cancellare. Jean Valjean può cambiare identità, può scegliere nomi nuovi, ma Javert è sempre lì, lo trova, lo riconosce, lo insegue.
Anche Javert ha una storia: nato in una prigione, figlio di un galeotto e di una cartomante, egli – dice Hugo – si accorge che ci sono due grandi categorie di esseri umani che la società lascerà sempre ai suoi margini: i delinquenti e le guardie; non volendo far parte dei primi, per una sua innata tendenza alla rigidità, si consegna anima e corpo alla seconda categoria. Da subito intuiamo che è l’obbedienza all’autorità, non il senso di giustizia, a muovere Javert: la legge, da strumento, diventa un fine. Ai ragazzi di Terza media, che hanno presentato ai loro amici più piccoli L’amico ritrovato e hanno lavorato sulle leggi razziali, vengono subito in mente le azioni spietate e meccaniche delle SS naziste e la loro difesa ai processi di Norimberga: stavamo solamente seguendo degli ordini. L’autorità, da guida, può diventare un idolo. Javert, dice Hugo, «aveva introdotto una linea retta in ciò che vi è di più tortuoso», ossia nella vita; c’è, in questa operazione, una violenza inaudita, esercitata sugli altri e su se stesso, che già anticipa il tragico finale. La tortuosità della vita è incarnata da Valjean, dai suoi processi interiori che lo portano a ritornare su di sé, dalle sue coraggiose scelte di sacrificarsi per gli altri; ma è anche rappresentata da Monsieur Myriel, in quella decisione assurda non solo di perdonare chi gli aveva rubato l’argenteria, ma di regalargli anche i due candelabri. Se questo eccesso, questo spreco, questa sovrabbondanza di bene è il motore della conversione di Jean Valjean, insieme all’eccesso di miseria che egli incessantemente soccorre, Javert sarà del tutto incapace di cambiare, proprio come è del tutto incapace di riconoscere il cambiamento nell’ex galeotto. Sono le storture, le discontinuità, gli eccessi, è la tortuosità della vita a permettere all’essere umano di andare oltre se stesso. La rigidità, invece, ci trasforma in macchine inutili.
Per questa via, il pensiero romantico ha approfondito quella già tracciata dall’Illuminismo. Per Beccaria le profondità dell’anima non possono essere comprese dalla razionalità, che deve occuparsi della scrittura di leggi chiare e della proporzionalità e della certezza della pena: tutto il resto deve essere lasciato alla religione. Hugo intuisce, invece, che la ragione si può e si deve addentrare anche nel mistero della libertà umana. Il Romanticismo è tutto fuorché assenza di ragione: il pensiero si avventura per vie nuove e, ovviamente, deve avere strumenti nuovi. Il racconto, più che l’analisi, è in grado di seguire le svolte e le contraddizioni che abitano l’anima. Ma lo scopo, per l’uno e per l’altro, è il medesimo: far diventare la società più umana, rendere il mondo più abitabile. Entrambi sono protagonisti di una delle grandi svolte della storia europea, con le sue ombre e le sue promesse: l’epoca delle rivoluzioni.
È proprio la rivoluzione lo scenario in cui Valjean e Javert si incontrano ancora una volta, l’ultima. Il primo è sulle barricate, con un nuovo nome, mentre cerca di proteggere un giovane di cui Cosette, la bimba che ha adottato ormai diventata giovane donna, è innamorata. Il secondo, invece, è una spia, si è infiltrato tra i rivoltosi per poter conoscere i loro piani e per cercare nuovi criminali da perseguitare. Scoperto e condannato a morte dai rivoltosi, questa volta sarà lui a ricevere un dono sovrabbondante: Valjean promette di occuparsi di lui ma, invece di liberarsi per sempre del suo persecutore, scioglie i suoi legami e gli dona la libertà. Il prigioniero, trasformatosi in guardia, mostra alla guardia, diventata prigioniero, ciò che avrebbe potuto osare: credere nella possibilità del cambiamento, credere che la giustizia è più grande della legge e sa inaugurare vie nuove.
Eppure, il gesto di bene non genera altro bene. Javert è confuso, per la prima volta non ha una via retta davanti a sé, ma due vie, di fronte alle quali non sa scegliere: la via della rigidità e la via della giustizia. Javert, che non ha mai cambiato nome, a differenza della sua preda, non si riconosce più, di fronte al mostro che si è affacciato nella sua vita: un criminale sommamente buono, il «sublime in un miserabile», come scrive Hugo. Di fronte alla possibilità di essere altro da sé, l’ispettore decide semplicemente di non essere: si getta nella Senna e non compare più.
«Come Martin Eden!», suggerisce uno dei ragazzi: anche l’eroe di Jack London, incontrato lo scorso anno, protagonista di grandi cambiamenti ma anche dell’incapacità di accettare l’altro per quello che è, sprofondava nelle acque gelide per non essere più. Se la vita non è una linea retta per nessuno, il perdono non si può comandare per legge, come ci ha insegnato Shakespeare nel Mercante di Venezia: risolvere il dramma tra giustizia e perdono è un compito che solo la libertà umana può compiere.
Ma nulla, in questo orizzonte, è scontato. Per esempio, riflettiamo con i ragazzi, assolversi non è sempre più semplice rispetto a condannarsi. Molti di loro ammettono che, lasciati alla propria coscienza, finiscono per incolparsi più di quanto altri non lo facciano con loro. Certo, assolversi è pericoloso, ma anche farsi imprigionare dai rimorsi e dai sensi di colpa è un male che minaccia la vita.
Il fatto è che, come ci ha insegnato Hannah Arendt proprio all’inizio del percorso, «nessuno ha il diritto di obbedire»: per quanto le diverse leggi cerchino di mettere ordine nella vita, la legge interiore, la coscienza, ha sempre l’ultima parola. Ma la coscienza non è un elenco di precetti, la coscienza è sempre un’avventura.