ESTATE A CACCIA DEI TESORI DI MILANO
Al maestro, con affetto
IL GRANDE GIOCO
C’è un paese nella regione del Caucaso, a cavallo tra Asia e Europa, che da secoli sembra inesorabilmente destinato a prosciugarsi come un laghetto alpino sopraffatto dalla ferocia della siccità e dalla vegetazione infestante.
È l’Armenia, culla della cristianità, la cui storia, dal 1200 a.C., con il grande regno di Urartu, fino a oggi è un susseguirsi di conquiste e sconfitte, di crescite e decrescite, di acquisizioni di territori e perdite e poi perdite e ancora perdite. Ai tempi del regno di Tigrane il Grande, nel I secolo a.C., i suoi confini si estendevano dal Mar Mediterraneo, al Mar Nero, al Mar Caspio; dopo la sconfitta inflittale dalle truppe di Pompeo nel 66 a.C., l’Armenia divenne una delle poste in gioco fra prepotenti grandi e piccoli, vicini e lontani; oggi non raggiunge i 30 mila chilometri quadrati, poco più della Lombardia, per intenderci.
Ampia nella parte settentrionale e centrale, si chiude a sud est, non dissimile da una costoletta di agnello, con uno stretto lembo di terra facilmente afferrabile da zampe rapaci desiderose di divorarlo con le loro fauci: fauci che oggi appartengono ai “lupi grigi” turco-azeri, aizzati e mandati al massacro da capi branco spregiudicati e insaziabili.
Ho visitato l’Armenia questa estate e, come sempre avviene, la preparazione prima, la visita in diretta e la ripresa dopo, fanno del viaggio una grande opportunità per studiare la storia, pensare il passato, il presente e, in generale, la natura umana e, nel mio caso specifico, per offrire ai ragazzi spunti di riflessione.
Il forse poco consono richiamo a una costoletta di agnello scaturisce dall’accorato sentimento nato nei confronti di un Paese piccolo e debole – nonostante il potenziale offertogli dalla strategica posizione geografica, dal genio e dalle abilità della popolazione, dalla bellezza e varietà della natura, dalla potenza e sacralità dell’arte – la cui carne, dilaniata dai morsi acuti del primo grande genocidio del XX secolo, non smette oggi di sollecitare appetiti voraci. Una definizione meno cruenta, ma assai più subdola è quella di posta in gioco in quell’interminabile e violento grande gioco, appunto, che dà il titolo a questo articolo.
“Grande gioco” — The Great Game — è espressione coniata nel 1829 da un ufficiale dell’esercito britannico, per parlare del conflitto, fatto essenzialmente di mosse e contromosse di diplomazie, spie e servizi segreti, che nel corso di tutto il XIX secolo contrappose Regno Unito e Russia sulla scacchiera del Medio Oriente e dell’Asia centrale. A rendere popolare l’espressione fu però nel 1901 Rudyard Kipling con il suo tanto appassionante quanto delicato romanzo Kim, lettura da non relegare agli anni giovanili. In queste pagine, dense di poesia, il ragazzino, mezzo irlandese e mezzo indiano, data la sua intelligenza, le sue amicizie e la familiarità con il mondo asiatico che lo ha adottato, finisce con il rivestire un ruolo significativo negli intrighi del secondo conflitto anglo-afghano, riuscendo a impossessarsi di mappe e documenti russi che contengono i piani per demolire il controllo britannico della regione.
Nell’ultimo ventennio, l’espressione è facilmente e felicemente tornata in voga, arricchita dall’aggettivo nuovo — Nuovo Grande Gioco — per indicare le manovre degli Stati Uniti, degni e altrettanto tentacolari successori degli Inglesi, e la Russia per il controllo dell’Asia centrale, dalle repubbliche dell’ex Unione sovietica fino all’Afghanistan e al Pakistan.
Il viaggio in Armenia da una parte, dunque, e la rilettura di Kim dall’altra mi portano a considerare amaramente, una volta di più, quanto vasto sia il campo da gioco della geopolitica, quanto complicati siano i suoi meccanismi, quanto antiche e, mutatis mutandis, immutate le sue regole, se di regole si può parlare; quanto meschini, uno per l’altro, i suoi protagonisti, nessuno escluso, quanto vacua la posta in gioco e quanto misero sia, infine, il ruolo di noi spettatori che, dagli spalti della nostra semplice quotidianità, più o meno lontana dagli scontri, osserviamo, ci schieriamo superficialmente e grossolanamente da una parte o dall’altra e, certamente, paghiamo un salatissimo biglietto per assistere inermi allo spettacolo brutale. Nel migliore dei casi, leggiamo e cerchiamo di capire in modo autentico e scevro da pregiudizi e luoghi comuni le ragioni dell’agire, generalmente ci beviamo superficialmente quanto riportano, a loro piacimento, i media del momento.
Ad ascoltare la nostra colta, appassionata e lucida guida, la terra armena inesorabilmente verrà erosa in ogni sua parte dall’avanzare della potenza turca: l’autoproclamatasi repubblica dell’Artsakh – parte di quell’osso, di quel lembo di terra meridionale – a noi più nota come Nagorno Karabakh, nome donato alla regione da Stalin, da inizio millennio e fino a questi ultimissimi giorni estivi del 2023 è teatro di scontri continui e violentissimi: buona parte del territorio è ormai sotto controllo dell’Azerbaigian: gli Armeni sono i nemici giurati degli Azeri (“potrei condividere una stanza con una ragazza turca – ci ha detto la nostra guida – ma mai e poi mai con una ragazza azera!”). Conquiste militari, accordi, scambi, promesse: di fatto, la repubblica di Artsakh è ormai interamente circondata dall’Azerbaigian e, a quanto sembra, destinata a soccombergli. Ma cos’è mai l’Azerbaigian nella sfera rotante del mondo? Davvero può tanto? “Quando diciamo Azeri, intendiamo Turchi” – prosegue la guida – “e quando diciamo Turchi…?” penso subito io.
«Il Gioco è così vasto – spiega Mahbub a Kim – che non si riesce ad abbracciarne in una volta sola se non una piccolissima parte».
Chiusa ostilmente a est e a ovest, l’Armenia confina a nord con la Georgia e a sud con un pezzetto dell’“amico” Iran, nemico acerrimo di Turchi e Americani. Naturalmente poi c’è sempre la grande madre Russia, attualmente in altre faccende affaccendata, però…
Tutta una colossale polveriera, un territorio fortemente interessato e coinvolto nel progetto della Nuova via della seta che, con i suoi divoranti interessi, avanza decisa dalla Cina verso l’Europa e intende passare di qua, non di là, coinvolgere questi, escludere quelli… Innumerevoli giovani vite sacrificate, villaggi affamati, miliardi investiti malamente in armamenti, ecosistemi meravigliosi distrutti in modo irreversibile, inestimabili tesori culturali barbaramente e ciecamente rasi al suolo: sempre così, sempre lo stesso macabro esercizio di potere e sopraffazione, di fronte al quale noi, piccoli italiani, ce ne usciamo con un ingenuo, ma sincero e accorato: ma basta! Basta! Ma non si può davvero convivere rispettosamente e civilmente? Non siamo solo naif: ci sono riusciti molti popoli, in molte epoche e in molte parti del pianeta. La nostra esternazione viene comprensibilmente liquidata in un secondo: facile per voi che da ottant’anni non ospitate una guerra e non avete parenti morti in battaglia. Vero.
In Piccioletta barca, ci dedichiamo con passione alla geopolitica: più volte all’anno, presentiamo ai ragazzi le situazioni arroventate del planisfero e abbiamo spesso la fortuna di farlo guidati da amici stranieri che vivono in prima persona il dolore del conflitto: abbiamo ascoltato, negli anni, un ragazzo del Senegal arrivato in Italia su un barcone, una giovane donna armena che ci ha raccontato la guerra del Nagorno Karabakh in diretta, una coppia con il marito russo e la moglie ucraina, due ragazzi siriani, una studentessa iraniana…
Il nostro proposito è abituare i ragazzi a interessarsi, a studiare, a cercare sempre fonti autorevoli e autentiche, di una parte e dell’altra, a non ingoiare passivamente il veleno somministrato dai mass media.
Siamo ben consapevoli che il Grande Gioco non finirà mai, ma con altrettanta certezza affermiamo che c’è e sempre ci sarà il piccolo gioco quotidiano, in cui ciascuno di noi è re o regina, importante e insostituibile. È il piccolo gioco di ogni uomo, solo apparentemente insignificante e invisibile, quello che manda avanti il mondo! Come Anna Frank, “nonostante tutto, continuiamo a credere nell’intima bontà dell’uomo”.
Guardare il mondo con lucidità e consapevolezza, studiare e conoscere, accettare senza abbattersi che certe sue logiche sono brutali, certe fami insaziabili, certe menti distorte e imperscrutabili, ma vivere con la certezza assoluta che la stragrande maggioranza dell’umanità è composta da pedine instancabili del piccolo gioco, alfieri di valori fondamentali: ognuno di noi può e deve fare la sua parte, muovendosi nella ristretta scacchiera delle sue giornate con mosse di rispetto, tolleranza, benevolenza, in ogni direzione, soprattutto in profondità.
Sembra che, in questo triste tempo, i bambini azeri, a partire dagli anni della scuola primaria, vengano metodicamente istruiti a odiare gli Armeni e a impugnare armi contro gli usurpatori; i ragazzi della Piccioletta barca metodicamente vengono invitati a rispettare tutte le persone di buona volontà e a impugnare libri. Alla Scuola di Pace, durante l’ultima vacanza, hanno imparato che l’eccidio di Marzabotto non è stato opera di Tedeschi contro Italiani, bensì di nazi-fascisti contro civili inermi. Perché il male non coincide mai con un popolo.
I poveri bambini azeri, a loro insaputa, finiranno sullo sconfinato tabellone del Grande Gioco e semineranno distruzione; i ragazzi della Piccioletta Barca – per questo, almeno, ci impegniamo tanto e questo ci auguriamo – giocheranno consapevolmente i loro piccoli giochi e, come il piccolo grande Kim, ognuno di loro verrà chiamato “Amico di tutto il Mondo”.