
IL CARNEVALE DEGLI ANIMALI DI SAINT-SAËNS

MA IL RE È NUDO!
REALISMO EDUCATIVO

Mi è capitato tra le mani recentemente un piccolo libro di cui avevo sempre sentito parlare, ma che non avevo mai letto. Si intitola Realismo capitalista, è l’opera forse più nota del filosofo Mark Fisher, scomparso nel 2017, noto al grande pubblico, soprattutto anglofono, per un blog in cui appariva con lo pseudonimo di K‑punk. Il libro – un piccolo capolavoro che si avventura nella comprensione della nostra epoca attraverso alcuni suoi luoghi culturali (film, romanzi, immagini, musica) – è un’opera apertamente militante, che ingaggia una sfida all’ultimo sangue con il Grande Altro, l’impronunciabile nemico ormai vittorioso, il Capitalismo. Lo stesso titolo del libro allude a quella forma reale che il Capitalismo ha assunto oggi, corrispondente a quella, altrettanto temibile, del così detto Socialismo reale. Fisher fa parte di quello sparuto manipolo di pensatori che prova seriamente a portare la riflessione critica al cuore di un sistema di sviluppo che sembra avere paralizzato la storia, proponendosi come ineluttabile destino comune a cui nessuno può sottrarsi. Qualunque sia la nostra idea politica, leggere Realismo capitalista è un’esperienza di purificazione che consiglio a tutti.
Se ne parlo in questo blog, però, è per un motivo preciso: le riflessioni di Fisher muovono a partire da un’esperienza decennale di insegnamento in Gran Bretagna nella further education. Come egli stesso racconta, «la further education è stata per molto tempo il luogo in cui studenti che spesso provenivano da un retroterra proletario potevano rivolgersi in alternativa alla istituzioni scolastiche più convenzionali» (p. 57): un luogo, dunque, in cui giovani che non proseguono con gli studi universitari vengono introdotti al mondo del lavoro. È in questo spazio educativo difficile che Fisher ha dolorosamente incontrato i mali più sinistri del capitalismo.
La caratteristica patologica che riscontra negli studenti è l’impotenza riflessiva: «gli studenti sanno che la situazione è brutta, ma sanno ancor di più che non possono farci niente» (p. 58). Non si tratta solamente di un’idea: secondo Fisher è una vera e propria profezia che si autoavvera e da cui conseguono patologie e disturbi del comportamento, dalle difficoltà di apprendimento alla depressione, dall’ansia ai disturbi dell’alimentazione. Ma è soprattutto la risposta istituzionale a essere paradossale: invece di individuare il problema nella fragilità del legame sociale, nella precarietà del futuro che il nostro mondo consegna ai giovani, ogni fenomeno viene patologicizzato: agli occhi degli adulti essere adolescenti è ormai diventata una sorta di malattia. Questo processo di patologizzazione è il modo migliore che il nostro mondo ha per immunizzarsi dall’unico vero compito: quello di ripensare radicalmente se stesso e, con se stesso, i percorsi educativi che propone.
Descrivendo i suoi studenti, Fisher parla di un’edonia depressa: mentre la depressione solitamente coincide con il rifiuto di qualunque stimolo e con l’incapacità di provare piacere, i giovani appaiono chiusi in un circolo vizioso che li costringe a non cercare altro se non il piacere. Quando un ragazzo accusa l’istruzione di essere noiosa (quante volte noi stessi abbiamo sentito questa obiezione!) non sta affatto riferendosi al contenuto dell’insegnamento, ma al fatto che per studiare è costretto all’atto della lettura, che comporta necessariamente il sottrarsi da quel flusso infinito di stimoli comunicativi che costituisce la prigione del piacere in cui il sistema li ha incatenati, una gabbia fatta da messaggi facili, continui, on demand, sempre disponibili e sempre dimenticabili. Il mondo della comunicazione fornisce un godimento facile, sempre a disposizione, ventiquattr’ore su ventiquattro. È il mondo dell’intrattenimento, del fast food, del flusso incessante di piccoli piaceri, parti di quella che Lacan chiamava la lamella, una sorta di membrana che dà corpo al godimento e che può essere tagliata in mille piccoli pezzi, conservando sempre in qualche modo la promessa di realizzazione.
Ora, ciò che rende particolarmente interessante la lettura di Fisher è precisamente l’interpretazione politica di questo fenomeno: il capitalismo ha avuto bisogno di inserire questo processo negli spazi educativi perché, secondo un’espressione di Deleuze e Guattari, «il capitalismo è profondamente analfabeta» e «il linguaggio elettrico non passa né per la voce, né per la scrittura: l’elaborazione dei dati può fare a meno di entrambe». L’operazione di Fisher può apparire estrema, ma pone di fronte a una scelta precisa: smettere di leggere le difficoltà dell’apprendimento come dimensioni personali e collocarle nello spazio politico. Nel primo caso costruiamo una generazione di ragazzi e ragazze ammalati, magari rassicurandoli con certificazioni costose di cui il sistema in qualche modo (misterioso) terrà conto. Nel secondo caso ci accorgeremo finalmente che, per il bene dei nostri figli, è necessario pensare un mondo diverso. Proprio nel ricordare al Capitalismo le patologie che ha generato, Fisher intravede una prima forma di necessaria resistenza e un grimaldello per riaprire la storia dell’occidente.
La nostra quotidiana esperienza ci suggerisce che la lettura di Fisher debba essere presa sul serio. I nostri ragazzi, in particolare alle superiori, vivono spesso la frustrazione della noia per lo studio: noi sappiamo bene quanto siano profondi, svegli, veloci a seguire le loro intuizioni. Li abbiamo ascoltati commentare Platone e Aristotele, esprimere il loro parere su Shakespeare e sull’estetica. Eppure, ogni pomeriggio alcuni di loro combattono una lotta impari contro un universo di godimenti brevi o si intrattengono fino a notte fonda in un flusso degli stimoli che non permette loro neppure di riposare. Non è colpa loro, è una delle strutture fondamentali del Capitalismo, che ha finito per colonizzare persino i nostri sogni. Quando entrano nella grande crisi dello studio sembrano non poterne più uscire, sprofondano in periodi di grandi dolori e presto, prestissimo, si arrendono all’inevitabile destino di andare male a scuola, come se non ci fosse davvero nulla da fare. Non abbiamo, in Piccioletta barca, le competenze necessarie per diagnosticare né per affrontare disturbi dell’apprendimento, ma spesso ci domandiamo come possano essere così diffusi, così endemici, anche in ragazze e ragazzi che fino al giorno prima erano perfettamente in grado di condurre ragionamenti complessi e profondi. Allora, qualche volta, il sospetto ci viene: che il problema non sia una patologia individuale, ma una grande malattia collettiva che rapisce la loro curiosità, la loro audacia, la loro capacità di impegnarsi nella realtà; che il sistema culturale abbia colonizzato il loro desiderio e i loro sogni e che sia qui l’origine dei loro problemi quotidiani. Contro questa rapina dobbiamo aiutare i nostri ragazzi a condurre le loro battaglie, ripetendo loro che possono vincerle, che devono vincerle, che le vinceranno, per la salvezza loro e del mondo intero.
Al termine di un libro spesso molto cupo, Fisher lascia due messaggi di speranza. Il primo è che a questa edonia depressa si possa opporre una nuova forma di ascesi: se la licenza senza limiti porta all’infelicità, «è probabile che siano le limitazioni che vengono poste al desiderio a stimolare (anziché attenuare) il desiderio stesso» (p. 152). Fisher, giustamente, ricorda una delle grandi intuizioni del filosofo Spinoza: la dispersione del desiderio non è una situazione eccezionale, ma la condizione esistenziale di qualunque essere umano, per questo l’attenzione per il mondo deve essere sempre guadagnata. La lotta è necessaria, dunque, ma una certezza c’è: essere stati capaci di sottrarsi al flusso comunicativo anche solo per un’ora è già una vittoria straordinaria, l’inizio di un cambiamento possibile.
Il secondo messaggio di speranza è che, in una notte così fonda come quella del Capitalismo post-moderno, anche piccolissime luci possono riaprire la storia: persino il più piccolo barlume di una possibile alternativa «può produrre effetti sproporzionatamente grandi». Piccioletta, la nostra barca lo è da sempre. Chissà che davvero possa portare il suo contributo affinché «da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpi torni possibile».
