
MIMESIS

O VOI, CHE SIETE MATERIA INCANDESCENTE…
“SONO TUTTI MIEI FIGLI”

Attratta da un titolo che parla la mia lingua, dall’autore affascinante, e garantita dal pregio del regista e della compagnia teatrale, qualche giorno fa ho assistito a uno spettacolo bellissimo, intenso, pregno di significato e portatore di un messaggio che, a comprenderlo profondamente e a farsene autenticamente e unanimemente carico, il mondo diventerebbe davvero un posto migliore!
Arthur Miller in Erano tutti miei figli elabora e porta in scena un episodio realmente accaduto durante la Seconda guerra mondiale, e coraggiosamente lo fa a due anni soltanto dal termine del conflitto.
In una cittadina americana di provincia, una come tante, in una ricca casa borghese che affaccia su un giardino pieno di alberi, lo schianto improvviso di un melo, causato dal forte vento notturno, prefigura lo schianto della ricca famiglia borghese, causato dal riemergere di segreti e bugie, nascosti, come spesso accade nelle migliori famiglie, sotto il tappeto di casa, dove i Keller conducono una normale esistenza, intrecciata di vacuità e di blandi rapporti con il vicinato.
Il crollo è tanto più doloroso in quanto l’albero era legato al figlio Larry, giovane pilota dell’aviazione americana, disperso ormai da tre anni.
Nel triangolo costituito dal padre – proprietario, insieme al socio Herbert, di un’azienda che durante la Seconda guerra mondiale fabbricava componenti per aerei militari – dalla madre, che rifiuta categoricamente l’idea della morte del figlio, alimentando le sue speranze anche con l’astrologia, e dal figlio minore Chris – ex ufficiale, rientrato dalla guerra con il cuore e la mente colmi di considerazioni bellissime e strazianti – si inserisce Ann Deever, figlia del socio di Joe Keller, nonché ex fidanzata del figlio disperso. Ann sa che Larry non tornerà più e volentieri asseconda le attenzioni di Chris, con il quale intrattiene da tempo una intensa corrispondenza: Chris l’ha invitata per chiederla in sposa.
In un dialogo bellissimo – a mio avviso, il più commovente dello spettacolo –, Chris prova a spiegare alla ragazza un sentimento cupo che abita in lui dopo la guerra: sul campo di battaglia, in mezzo alle peggiori atrocità, è stato capace di riconoscere il Bene della solidarietà fra uomini: racconta con profonda commozione il gesto di un suo sottoposto, che gli ha donato l’ultimo paio di calzini, dopo giorni ininterrotti di pioggia, insistendo perché lo accettasse; e si commuove, perché ha capito che nel male c’è un bene che resiste, che anzi proprio dal male nasce. E di quel bene più grande del male lui vuole farsi testimone, tornato dalla guerra: lo vuole gridare al mondo, vuole dire che c’è una bontà dell’uomo in cui credere ancora. Ma quando torna, si accorge che la vita è andata e va avanti inesorabilmente per la sua strada, fatta di vuota quotidianità; che nessuno ha più voglia di parlare di guerra: un episodio relegato là fuori, che non interessa più nessuno, con i suoi morti e i suoi sopravvissuti. Con rammarico, prova a piegarsi anche lui a questa grande recita, lavora accanto al padre nell’azienda che ha modificato la sua produzione, e tenta di guardare al futuro e a una possibile esistenza felice.
Come sento vero il sentimento di Chris: anche oggi, negli interminabili racconti di guerra, riceviamo notizia di gesti buoni, coraggiosi, di solidarietà e voglia di bene, ma le armi continuano a sparare e nessuno sembra avere intenzione di crescere e diventare migliore, a partire dal male fatto o subìto.
Ripenso anche agli anni del Covid, l’esperienza reale di buio più recente e più vicina a tutti noi: nel male, abbiamo visto accendersi luci di commoventi eroismi, gesti di solidarietà e bontà infinita e credevano di poter ripartire da quelli, di poter fondare su essi una vita nuova, di poterli tramandare, farne bottino di speranza e fiducia… E invece, terminata l’emergenza, tutto è tornato come prima e nessuno ha più avuto voglia di riflettere. Perché ad attendere, in agguato, con il suo fiato corto, è la frenesia sociale ed economica che reclama il suo ruolo prepotente; perché vibrano le vertigini del successo e dell’affermazione di sé, perché pulsa la ricerca spasmodica del benessere proprio e dei propri figli, solo dei propri figli…
Chris – l’attore, ottimo, è Angelo Di Genio, che al termine dello spettacolo è apparso provato e stanco, come se tutto gli fosse accaduto davvero – vuole vivere appeso a quel bene che ha nel cuore, quel bene che ha visto nascere miracolosamente al fronte; vuole sposarsi, vuole aiutare la mamma ad accettare la morte del fratello, vuole che tutti quella sera si vestano bene e vadano a cena e a ballare in onore della sua dichiarazione di amore…
Ma il suo desiderio di bene si sgretola, eroso dal lento e inesorabile svelamento della menzogna su cui la famiglia Keller sta costruendo la sua esistenza. Ventun giovani piloti americani, durante la guerra, hanno perso la vita a causa di componenti difettosi, forniti dalla fabbrica di Keller: Joe e il socio vengono incriminati, ma Joe fa ricadere la colpa unicamente sul socio, che ancora sta scontando la pena in carcere. L’irrompere sulla scena dell’avvocato, fratello di Ann – come lei, dunque, figlio del socio imprigionato –, sistema le tessere del puzzle e, in un terribile climax di tensione e dolore, la verità si ricompone: come sibilavano le dicerie di quartiere, fu proprio Joe a dare l’ordine al socio di rappezzare in qualche modo quei pezzi e di inviarli al fronte.
Ecco perché la madre – tutt’altro che folle, dunque, anzi ben consapevole della verità, in cuor suo – sostiene con decisione che Larry non può essere morto: «perché un padre non può uccidere un figlio». Larry, si saprà alla fine, non era in realtà uno di quei ventuno piloti ma, appreso dai giornali lo scandalo che investe la ditta del padre, si è tolto la vita durante una missione.
Il dialogo concitato fra il padre e il figlio, che segue alle accuse dell’avvocato e diventa lite furiosa, è un ricamo fitto di dolore, rabbia, angoscia che coinvolge lo spettatore fino a prostrarlo insieme agli attori: «ma io l’ho fatto per te!» è la frase che più volte ripete Joe. Erano tempi duri, la fabbrica che sbagliava era fuori dal gioco; tutti hanno compiuto errori, tutti hanno fatto così: bisognava vendere, solo vendere. E Joe ha venduto e guadagnato, e lo ha fatto solo per il figlio, per suo figlio che ora dirige con lui la fabbrica, che un giorno ne sarà padrone, che sarà ricco e potente, che un giorno… Tutto per suo figlio! Ma a suo figlio non interessa nulla di tutto questo; del padre, gli interessano piuttosto l’onestà, il coraggio, l’assunzione delle sue responsabilità. Il vecchio Keller, suo figlio Chris, lo ha distrutto, ne ha distrutti due, anzi; di più: ne ha distrutti ventuno. Perché al termine di questo scambio di parossistica forza e fragilità, Joe sommessamente dichiara: «erano tutti miei figli…».
Un brivido corre lungo la spina dorsale, perché, come sempre, nella letteratura è la verità dell’uomo e della vita. Sì, anche quei ventuno piloti erano figli di Joe Keller, come tutti i soldati morti inutilmente, allora come oggi.
Tutti i ragazzi sono figli di tutti: i ragazzi che aspettano il realizzarsi della promessa buona della vita; i ragazzi che potranno vivere bene se ci sarà ancora aria pulita da respirare e acqua buona da bere, se avranno case da abitare, mari puliti e montagne immacolate di cui godere; se stringeranno nelle mani un diploma, se avranno nel cuore una passione vera, se avranno imparato il senso civico, il rispetto e la solidarietà verso tutti. Tutti i ragazzi sono figli nostri, di noi adulti che proclamiamo orgogliosi di fare tutto per loro e invece siamo pieni di noi stessi, delle nostre paure e dei nostri sospetti, della nostra sete di benessere e della nostra voglia di quiete. Noi adulti che, al massimo, ci occupiamo di nostro figlio, due, tre se siamo stati coraggiosi, e li soffochiamo di cure che fanno più bene a noi che a loro.
Solo un’inversione, una semplice inversione, di questa misera rotta potrà cambiare le cose per davvero: il futuro sarà là dove ogni adulto, dal presidente degli Stati Uniti all’amministratore delegato della multinazionale, al padre e alla mamma di periferia, prima di qualsiasi gesto, di qualsiasi scelta, di qualsiasi spesa, di qualsiasi impegno, di qualsiasi voto penserà che là fuori… sono tutti figli suoi!
