
NELLA SALA DORATA DEL MUNICIPIO DI STOCCOLMA, RICEVIAMO E ASSEGNIAMO PREMI NOBEL

INGE FELTRINELLI. LA LUCE CHE ABITA I LIBRI
SE RACCONTERÒ FANDONIE, NON SARÀ UNA NOVITÀ…

Molti ragazzi, rispondendo a bruciapelo alla insidiosa domanda riguardo all’opportunità di avere un sosia, affermano con decisione: “comodo un doppio di sé da far partecipare al proprio posto a tutte le situazioni poco piacevoli, come a scuola nei giorni di interrogazione!”. Di fronte a un consenso tanto alto, è sempre bene andare un po’ in profondità e lo facciamo oggi, guidati dalla intelligente levità di una commedia latina che di Sosia è proprio la mamma: l’Amphitruo di Plauto. Sosia, con la s maiuscola, perché da nome proprio del famoso servo è divenuto poi il genitore di tutti i doppi, di tutte le copie identiche di una persona. Vediamo in che senso…
Siamo a Tebe e Sosia è il servo del generale Anfitrione che torna a casa vincitore dopo aver sconfitto i Teleboi, stringendo nelle mani come trofeo la coppa d’oro strappata dalle mani del re Pterela. Ad accogliere sulla scena gli spettatori – e noi, lettori moderni – è il dio Mercurio che di Sosia ha assunto l’aspetto per assecondare i capricci amorosi del padre, il grande Giove, che questa volta si è invaghito della bella e nobile Alcmena. A chi frequenta la mitologia classica sono familiari i tradimenti di Giove e le metamorfosi, grazie alle quali avvicina impunemente le dee e le donne oggetto dei suoi desideri.
Si fa satiro per conquistare Antiope, figlia del re di Tebe; si fa cigno per la bella Leda, toro per Europa; si fa pioggia d’oro per raggiungere Danae, figlia del re di Argo, chiusa in una torre. Per circuire Callisto, sacerdotessa di Artemide, assume l’aspetto della dea stessa. E, per la prima e unica volta, eccolo uomo in carne e ossa per godere dell’amore di Alcmena, figlia del re di Micene: Giove è diventato il comandante Anfitrione e, quando la commedia ha inizio, eccolo lì a giacere felice con l’ignara moglie del militare, godendo di una notte che, per suo stesso comando, si prolunga per il tempo di tre notti intere…
È famoso e importante il lungo prologo della commedia, recitato da Mercurio che, da subito, mischia magistralmente i piani della realtà e della finzione, intessendo con il pubblico un dialogo, pregno di mistero e di ironia. L’idea di uscire momentaneamente dal piano della recitazione per rivolgersi alla realtà degli spettatori avrà fortuna in tutto la storia successiva del teatro: ne sarà maestro Shakespeare, ma è anche quello che ha fatto anche Matilde, nella sua grande interpretazione di Galileo, nello spettacolo NOI Energia dello scorso anno.
Mercurio dichiara subito che il padre lo manda a pregare che tutto si svolga con regolarità e onestà, che nessuno paghi gli spettatori perché applaudano o esaltino la recitazione di un attore più che di un altro: suo padre ha paura di un insuccesso e ha trasmesso questo timore anche a lui… ma come? Può il padre degli dèi avere paura di una semplice recita? Sì che è possibile, perché Giove in questa tragedia è un attore: Iuppiter facit histrioniam, nel duplice senso meta-teatrale (un attore umano interpreta il dio) e, al contempo, nell’inganno teso a Anfitrione (il dio interpreta un umano)! A questo pasticcio si aggiunge un’altra domanda: perché tragedia? il pubblico ha pagato per assistere a una commedia e sa bene che dèi ed eroi si cimentano solo con l’alta materia tragica. Come stanno le cose? «Sono un dio – rassicura Mercurio/Sosia – e posso cambiare. Conosco i vostri gusti: ne farò un’opera mista, una tragicommedia» (tragicomoedia è l’ingegnoso neologismo plautino). Oggi dunque va in scena una prima assoluta: la prima tragicommedia della letteratura, un intreccio comico con personaggi tragici. Tutto sembra tramare per confondere i poveri spettatori e, con loro, noi piccoli accademici del XXI secolo, insieme, ovviamente, agli ignari Anfitrione, Sosia e Alcmena.
Nel cuore dell’interminabile notte, giunge il vero Anfitrione, rientrato a Tebe con il suo esercito vittorioso e manda avanti il vero servo Sosia ad annunciare il suo arrivo ad Alcmena. Qui le cose si complicano: il vero servo rimane completamente sconvolto nel vedersi dinanzi un altro se stesso che lo minaccia e lo percuote; rinuncia a bussare alla porta e racconta l’accaduto al padrone, il quale, non credendogli, va su tutte le furie, pensa che il malcapitato servo sia impazzito o ubriaco o abbia sognato, lo insulta pesantemente e lo picchia anche lui. Quando Anfitrione raggiunge casa, si scatena il gioco degli equivoci. Il marito accusa la moglie di adulterio, nonostante lei giuri di non averlo mai tradito. Alla fine, Giove, facendo udire dal cielo la propria voce insieme al tuono, svela l’inganno e Anfitrione, più devoto che orgoglioso, si dichiara onorato che Giove, il padre degli dèi e degli uomini, abbia scelto sua moglie come amante. La vicenda si concluderà con la nascita di due gemelli: Ificle, figlio di Anfitrione, e Ercole, concepito da Giove.
Con i ragazzi ci soffermiamo sul primo, divertente e tragico incontro tra il vero Sosia (il servo di Anfitrione) e il suo sosia (Mercurio, agli ordini di Giove). Il gioco linguistico tra l’originale e la copia, di cui Mercurio, l’unico a conoscere come stanno le cose, detiene la chiave, ammicca a noi spettatori: le frasi diventano ambigue e il povero servo di Anfitrione (certo, non un santo e neppure un genio) è vittima tanto del linguaggio, quanto delle botte che riceve generosamente dal suo doppio. L’esperienza di Sosia è quella di non riconoscere più la sua verità, di essere esposto a una profonda crisi di sé, quella stessa che nella nostra lingua definiamo straniamento o estraniazione. Battuto e manipolato, egli diventa il modello di ogni esperienza di doppio che la letteratura e l’arte ci proporranno da qui in poi. Nel doppio, infatti, c’è sempre un’ombra di morte.
Discutiamo, dunque, con i ragazzi su questa strana figura. Matilde riconosce che, nella finzione, capita talvolta di rimanere imprigionati e di vivere vere e proprie forme di esasperazione: mano a mano che si entra nella menzogna, è sempre più difficile uscirne. Forse, in qualche misura, le nostre parole sono sempre in parte menzognere, perché non coincidono mai con la realtà: il sintagma ‘mela’, non si mangia, non ha profumo e non marcisce. Eppure, qualche volta, come nel caso della tragicommedia, le parole diventano realtà nostro malgrado, proprio come le botte che Mercurio dà a Sosia.
Torniamo, però, al sogno di avere un doppio. Morgana lo manderebbe a fare le cose più noiose e che tuttavia richiedono la tua presenza, ma Matilde intuisce che mai si ha la certezza che un’esperienza sia solo negativa: concedendola al proprio sosia, si corre sempre il rischio di perdersi qualcosa di bello. Emma, similmente, immagina che un doppio possa ingarbugliarle la vita, creare situazioni di cui lei non è a conoscenza o comunque che non sono in suo potere. Adham, con il suo consueto acume, sostiene che se un doppio di sé è a sua volta un individuo libero, allora il disaccordo non solo è possibile, ma inevitabile.
L’esperienza più simile al doppio è quella dei gemelli; non ne abbiamo in Piccioletta barca, ma Gabriel ci racconta della sua mamma e della zia, che sono gemelle e che, lo sappiamo bene, si assomigliano moltissimo, benché una sia più estroversa e una più timida: quando quest’ultima è in scena, chi la confonde per la gemella, teme che le sia accaduto qualcosa di triste. Certo è che i gemelli (e anche i fratelli) fanno di tutto, il più delle volte, per essere diversi, nella pretesa, dice Alan, che ognuno ha di essere unico e con la paura, conclude Samuele, di essere scambiati per qualcuno che non siamo.
