
LA SCUOLA MEDIA ACCUSA LA SCUOLA ELEMENTARE
IL RISIKO STRATEGICO DEI REFERENDUM

Nel momento in cui scrivo – sabato mattina – non ho idea di come andranno i referendum i cui seggi aprono domani; non so se il quorum verrà raggiunto, non so se gli Italiani risponderanno alle oltre 630.000 firme che, per iniziativa popolare, li hanno convocati alle urne. Forse molti, seguendo i suggerimenti di alcuni esponenti, anche delle istituzioni, «andranno al mare» e non se ne farà niente: si potrà tornare sui social e a dire la propria a proposito di lavoro, di immigrazione e di cittadinanza.
Certo, però, il dibattito di queste settimane contiene dei paradossi che mi piacerebbe raccontare ai ragazzi, per dire loro quanto è complesso, strano – e talvolta francamente assurdo – il mondo degli adulti.
L’hanno detto tutti: non votare ai referendum è una strategia. Non è certo la prima volta che qualcuno invita i cittadini a fermare le istanze referendarie attraverso l’astensione. Resta da capire, però, se è sensato ridurre la partecipazione politica al risiko strategico, soprattutto nel contesto attuale. Tanto più che è proprio di qualunque strategia confrontarsi con un contesto tattico preciso: non esistono strategie assolute, è strategico ciò che si inserisce in modo virtuoso in una trama di eventi. Ora, pochi giorni fa abbiamo spiegato ai ragazzi che se la Costituzione prevede la necessità di superare un quorum, lo fa per un motivo molto preciso: vuole impedire che una parte minima degli elettori decida la sorte di tutti. La norma, quando è stata scritta, aveva alle spalle un referendum, quello del 1946, la cui partecipazione sfiorò il 90% degli aventi diritto. La trama degli eventi, però, è cambiata profondamente: alle ultime elezioni politiche (che non prevedono alcun quorum), in Italia, si è recato alle urne il 63% dei cittadini; non sono un grande matematico, ma se la coalizione vincente ha ottenuto il 44% dei voti, significa che chi governa, oggi, è sostenuto circa del 28% degli elettori. Una minoranza ha già scelto per tutti, eppure, non mi sembra che questo dato abbia mai messo in crisi chi ci governa. Non c’è riflessione sulla politica (bipartisan) che non sottolinei come la fragilità della partecipazione dei cittadini metta a rischio la democrazia: ci risulta davvero difficile spiegare ai ragazzi che qualcuno consideri strategico coltivare un malanno. Ci metterebbero un istante a riconoscere che simili tattiche, in questo contesto, possono essere perfettamente coerenti con la lettera della legge, ma ne tradiscono lo spirito.
Un secondo paradosso è squisitamente linguistico. L’espressione «andate al mare e non a votare» ha una risonanza sinistra di fronte a un referendum in cui quattro quesiti su cinque riguardano il tema del lavoro. Tema complesso, certo, difficile da dirimere con un sì o con un no. Ma al mare ci va chi ha un lavoro sicuro, capace di sostenere una vita decente per lui e per i suoi figli; andare al mare è un’abitudine che ha preso piede, tra la gente comune, in un tempo in cui il lavoro consentiva di migliorare le proprie condizioni di vita, in un tempo in cui i salari erano proporzionati a quanto si era capaci di produrre, in un’epoca in cui, quando tornavi dal mare, il tuo lavoro era lì ad aspettarti. La generazione che ha incominciato ad andare in vacanza è quella dei nostri nonni, che con il sudore della fronte hanno permesso ai loro figli di studiare e che qualche volta, al mare, sono riusciti anche a prendere una casetta per la loro pensione e per far giocare i nipoti. Immaginarsi che il mercato del lavoro abbia ancora la stessa forma, fingere che tutto sia come un tempo (e che possa tornare facilmente a esserlo) significa nutrirsi di illusioni. Può essere che le richieste dei quesiti referendari non siano all’altezza della questione, ma certo è che, senza le tutele necessarie, al mare, nei prossimi decenni, rischiano di andarci sempre meno persone.
Un terzo paradosso, grande come una casa, è quello identitario. Penso ai ragazzi che ci sono in Piccioletta barca, soprattutto a quelli che, pur nati in Italia, sono figli di stranieri. Per noi, è scontato considerarli come tutti gli altri, quando parliamo di legge, di partecipazione, di voto, di responsabilità. Ma non sono come tutti gli altri: se sono nati in Italia senza mai avere spostato la loro residenza altrove, a diciotto anni potranno chiedere la cittadinanza e ottenerla, nel giro di qualche mese. Ma se, per caso, sono nati altrove o se hanno semplicemente vissuto per un certo periodo fuori dal nostro Paese, allora le cose sono diverse: dovranno dimostrare di aver vissuto qui per almeno 10 anni consecutivi e poi fare domanda di naturalizzazione. Pazienza se hanno l’italiano come lingua madre, se seguono il calcio italiano e se conoscono a malapena quella del paese d’origine dei loro genitori: se tutto va bene, ci vorranno un paio d’anni perché, compiuti i diciotto, la loro domanda sia accolta; intanto i loro compagni (anche quelli che di politica non sanno nulla), potranno recarsi ai seggi, sempre che siano interessati a farlo. Il referendum, come è noto, propone che il periodo di residenza continuativa scenda a 5 anni: non risolve il problema (come farebbe, per esempio, una legge sullo ius soli o sullo ius scholae), ma indica almeno la direzione in cui occorre muoverci. Il paradosso, però, non è questo. Il paradosso è che chi si oppone alla richiesta dei promotori del referendum, di solito lo fa in nome di un imprecisato senso di italianità. Ora, difendere l’identità nazionale da coloro che chiedono di diventare cittadini – ossia di partecipare alla vita politica del Paese – attraverso la scelta di non andare a votare è un doppio carpiato teorico talmente assurdo da far rabbrividire (perché, no, non fa molto ridere). Come dire: esprimo l’esclusività del mio diritto a essere italiano rinunciando a quello stesso diritto. Quando vediamo una ragazza la cui famiglia viene dal Marocco appassionarsi alla Divina commedia, quando scopriamo che un ragazzo sudamericano si è fatto regalare I miserabili per leggerlo quest’estate, quando li sentiamo confrontarsi liberamente su un testo o su quello che sta accadendo a scuola o su un progetto della Piccioletta barca, quando li vediamo coraggiosamente parlare in pubblico di fronte a decine di adulti, siamo certi che abbiano tutto ciò che serve loro per essere degli ottimi cittadini. E ci sembra che, nonostante tutto, quella della cultura sia l’unica strategia davvero vincente.