
TUTTI QUANTI VOGLION FARE IL JAZZ… (in collaborazione con Davide Parisi)

VITA DI GALILEO (parte 1)
RENDICONTARE, CONTARE, RACCONTARE

“M’è capitato sott’occhio per caso uno dei più recenti bandi di concorso di quel venerando Istituto. Santo Cielo! È possibile presentare tanti documenti? E procurarseli? … E poi fare l’esame? E poi aspettare l’esito? Ih… Com’è difficile la vita!” Il lamento è del poeta milanese Delio Tessa, nel racconto “Impiegati 1890”. Me lo ha segnalato amabilmente Barbara Costa, direttrice dell’Archivio Storico Intesa Sanpaolo, dove si conservano anche numerosi esemplari di simili bandi, pubblicati da vari Istituti di credito confluiti nel gruppo, compreso quello presso cui era impiegato il padre del poeta. Queste parole mi sono tornate in mente nelle ultime settimane, mentre ero intento a raccogliere i documenti necessari per la rendicontazione di un progetto della Piccioletta Barca, il Centro di Cultura Musicale, finanziato da un generoso contributo della Fondazione di Comunità MIlano, erede di quello stesso Istituto.
Com’è difficile districarsi fra tanti adempimenti burocratici! Quante volte ci siamo trovati a deprecare il fatto che la rappresentazione delle attività della nostra associazione, anche a favore di finanziatori effettivi o potenziali, debba tradursi in formulari e indicatori. Dare conto di ciò che si fa non soltanto è giusto, ma può essere anche bello e entusiasmante, come testimonia chiunque abbia ascoltato Beatrice Gatteschi parlare della Piccioletta. Difficile e faticoso è tradurre tutto in moduli e tabelle e documenti. Che cosa impone che il render conto prenda la forma di un conto e non piuttosto d’un racconto?
La domanda può apparire ingenua e inattuale, come la scelta di Delio Tessa di abbandonare il mestiere d’avvocato per dedicarsi alla poesia. La risposta è ovvia: chi spende soldi vuole avere la rassicurazione di ricevere in cambio qualcosa di uguale valore. Se ciò è vero per chi con il proprio denaro acquista per sé un bene di consumo, varrà a maggior ragione per chi usa il denaro della collettività per sostenere chi si cura del bene comune. Chi ha il denaro deve essere convinto dell’opportunità di spenderlo. E sta alla controparte convincerlo. Il denaro stabilisce una radicale dissimmetria fra chi ce l’ha e lo può cedere e chi non ce l’ha e se lo vuole procurare: è più facile spendere il denaro che guadagnarlo. Sembra un’ovvietà degna del compianto Massimo Catalano… Invece è la radice di un possibile equivoco, da cui mette in guardia il padre dell’economia, Adam Smith.
Nella sua opera più nota, “La ricchezza delle nazioni”, Smith descrive il rapporto fra denaro e beni in termini molto simili: “il denaro attira i beni più prontamente di quanto i beni attirino il denaro”. In altre parole, è più facile comprare (usando il proprio denaro per procurarsi beni) che vendere (cedendo i propri beni per procurarsi denaro). Del resto, se non fosse così difficile vendere, le aziende non dovrebbero spendere tanto in pubblicità e marketing. E se non fosse così difficile vincere bandi, le organizzazioni nonprofit non dovrebbero investire tanto in fundraising.
Tuttavia, subito dopo, Smith aggiunge: “nel lungo andare, però, i beni attirano la moneta più necessariamente di quanto la moneta attiri i beni”. Che cosa significa questa precisazione? Smith suggerisce che, prima o poi, i rapporti di forza si invertono e il denaro è costretto a inseguire i beni. E la spiegazione è semplice: “Le merci possono servire a molti altri scopi oltre che all’acquisto di moneta, ma la moneta non può servire ad altro che all’acquisto di merci. La moneta corre quindi necessariamente dietro alle merci, ma le merci non sempre necessariamente corrono dietro alla moneta. Chi compra non sempre intende rivendere, ma spesso usare o consumare; mentre chi vende intende sempre acquistare di nuovo. Il primo può spesso aver chiuso il suo affare, ma l’altro non può mai averne fatto più della metà. Non è come scopo a sé che gli uomini desiderano il denaro, ma per ciò che possono acquistare con esso.”
Chi ha soldi può comprare qualunque cosa, anche il tempo. Il denaro conferisce il potere non solo di scegliere che cosa acquistare, ma anche di non acquistare: il potere di attendere, di non decidere, di rimandare ogni decisione.. Potremmo dire, richiamando il tema dell’Accademia di quest’anno, che il denaro rappresenta, per chi lo possiede, una forma di energia potenziale: una riserva, come l’acqua di una diga, pronta a trasformarsi in energia cinetica non appena è rilasciata e rimessa in circolazione. Ecco il potere recondito del denaro: di decidere e di non decidere. Ma questo potere rischia di trasformarsi in una maledizione se non è esercitato. Lo ricorda il mito del Re Mida, il quale chiede a Dioniso il dono di trasformare in oro tutto ciò che tocca, salvo rendersi conto di non poter più bere o mangiare o abbracciare la figlia… finché si libera del pericoloso dono bagnandosi nella corrente del fiume.
Lo esprime incisivamente anche il motto della Fondazione Cariplo: “tute serbare, munifice donare” – conservare al sicuro, donare generosamente. Bisogna provare a leggerli non come due atti distinti, bensì come due aspetti del medesimo gesto: il dono, come l’investimento, è una modalità del risparmio. Il modo migliore per preparare un domani migliore è prendersi cura dell’ambiente, della cultura, dell’istruzione. Ogni soldo speso (oculatamente, beninteso!) in questa direzione, si trasforma in un tesoro che non si consuma.