
IL CATTIVO RENDIMENTO
IL CARNEVALE DEGLI ANIMALI DI SAINT-SAËNS

È un uomo poliedrico, Camille Saint-Saëns che oggi ci accompagna in un percorso tra musica, natura e finzione. Musicista fin dall’infanzia (il primo concerto lo tenne a cinque anni), filosofo, uomo di cultura, appassionato conoscitore di farfalle. A lui dobbiamo il famoso Carnevale degli animali, opera in 14 movimenti, scritta per un organico piuttosto strano: due pianoforti, un flauto e un ottavino, due clarinetti, uno xilofono, un Glockenspiel e un quintetto d’archi. Fu eseguito per la prima volta il Martedì Grasso del 1922 a Vienna; dopo quella prima, l’autore comandò che non fosse più suonato e che si attendesse la sua morte. Solo il penultimo movimento, dedicato al Cigno, venne eseguito più volte e divenne quel balletto che oggi è noto a tutti come La morte del Cigno.
La particolarità di quest’opera – e il motivo del nostro interesse, in questo anno dedicato alla finzione – sta proprio nei processi imitativi su cui è costruita: ogni movimento è dedicato a una diversa specie di animali, di cui la musica sottolinea e riproduce ora la voce, ora l’incedere, ora una caratteristica caricaturale. La profonda ironia che la attraversa, facendone un vero e proprio carnevale, ci fa intuire che l’imitazione di Saint-Saëns non è semplicemente naturalistica: tra l’animale e lo strumento sta in mezzo lo spirito del compositore, la sua capacità di cogliere alcuni elementi, di esagerarne altri, di costruire delle vere e proprie maschere. Un gioco che, per esempio, non risparmia i pianisti, specie animale vanitosa e vacua e neppure alcuni compositori del passato, la cui musica viene citata non senza punte di critica sottile.
Apre le danze il leone, con un passo elegante e maestoso: entra in scena, si ferma, si guarda attorno, ruggisce, in un movimento ricco di ritmo e tensione. È poi la volta delle galline con il loro coccodè che sovrasta (per numero e per carattere) la voce del gallo. Gli emioni, una specie di cavalli selvatici, corrono avanti e indietro lungo la scala cromatica come tanti virtuosi della musica; però il loro passo, proprio come quello dei musicisti più vanitosi, sembra non portarli da nessuna parte. Procedendo per opposti, è la volta delle tartarughe, che si muovono sulle note del Can Can di Offenbach, tremendamente rallentato: un ritmo lento e asimmetrico accompagnato dal ritmo binario degli archi rendono il brano particolarmente difficile da eseguire. Tocca all’elefante che, nonostante il peso, accenna passi di danza su musiche in cui riecheggiano Berlioz e Mendelssohn, stravolti per l’occasione. E poi il canguro e un bellissimo acquario dai suoni ovattati della glassarmonica, guizzante di pesci. Gli animali successivi, a cui è dedicato un movimento di sole quattro righe, sono definiti Personaggi dalle orecchie lunghe: una parodia dei critici musicali, che scrivono senza approfondire e che hanno provocato nella musica una sorta di ristagno, reso dalle molte corone della partitura. Il cuculo, dal profondo del bosco, è affidato al clarinetto e, così come la voce dell’uccello proviene sempre dal cuore della foresta, il musicista dovrà suonare dietro le quinte del teatro. Leggerezza, volo, arresti e riprese sono i suoni della voliera, piena di uccelli con voce di flauto e di un frullo d’ali reso da archi pizzicati o suonati vicino al ponticello, affinché il suono sia più secco. Ecco ora arrivare i pianisti: sono due (come i pianoforti dell’organico) e la loro musica ricorda gli esercizi dei principianti, quasi scimmiette ammaestrate che, nonostante le infinite ore di prova, non riescono neppure a suonare allo stesso ritmo (così è l’indicazione sulla partitura, anche per i pianisti più virtuosi). I fossili appaiono sulle note di un allegro ridicolo ed è tutto un tripudio di xilofoni, come se un esercito di ossa si scontrasse su melodie già note (Saint-Saëns cita se stesso, ma anche musiche famose, a ricordarci il pericolo di una cultura che sa solo ripetere il già noto e non produce alcuna innovazione). Il brano più noto, dedicato al cigno, fu eseguito centinaia se non migliaia di volte, durante la vita di Saint-Saëns: protagonista era, ai tempi, la ballerina Anna Pavlova, di cui si dice abbia danzato l’aria del cigno su quattromila palchi diversi. Che si tratti della Morte del cigno – così il brano divenne famoso – Saint-Saëns lo negò sempre: le lunghe note del finale sono un elegante allontanarsi e non hanno nulla di funebre.
È però il finale il carnevale vero e proprio: raccoglie tutti i temi, li rilancia, in una grande festa di tutti gli animali. Tornano emioni, galline, canguri e asini, in un tripudio allegro che ci pone di fronte alla forza della natura e della musica.
Anche noi, trascinati dalla stessa forza, prendiamo in mano strumenti diversi e proviamo ad accordarci al carnevale: nella finzione (che pure produce un risultato sorprendentemente ben riuscito) ci immaginiamo di essere un’orchestra. Nulla di strano, in fondo: se Saint-Saëns ha riprodotto la forza inusuale del Regno animale, per seguirlo non c’è bisogno di essere veri musicisti, basta tornare quei bambini che tutti siamo stati, scegliere un animale e giocare insieme a «facciamo che ero…»: anche noi bambini, anche noi animali, anche noi musicisti.
