
COUP DE THÉÂTRE

FACCIAMO FINTA CHE…
GIÙ LE MANI DAI BAMBINI

Chi segue questo blog sa con quanto entusiasmo in Piccioletta barca abbiamo accolto la manifestazione del 22 settembre per fermare la guerra a Gaza e con quanta determinazione abbiamo voluto difenderla da chi voleva ridurla ai gesti di violenza avvenuti a Milano (trovate l’articolo qui).
Continuiamo a essere convinti di questa scelta: gli scioperi hanno raccolto la voce di uomini e donne che non vogliono più assistere impotenti alla violenza, alla guerra, alla morte dei bambini. Al di là delle bandiere e delle appartenenze, al di là degli slogan violenti e dei tafferugli, una massa di persone ha trovato il modo per gridare e cantare al mondo e alle istituzioni un desiderio di pace che attraversa l’intera società umana, dai bambini agli anziani. Centinaia di persone che non avevano messo mai piede in una manifestazione hanno voluto fare pressione sul Governo, hanno ritrovato nelle piazze lo spazio per partecipare a una costruzione di bene, per non sentirsi del tutto impotenti di fronte all’orrore. Questo gesto deve essere raccolto e custodito come una memoria buona, come un segno del bene che ancora e sempre abita nel corpo sociale.
Eppure, sabato mattina, facendo scivolare con il dito tra i miei social che da giorni mi propongono incessantemente le immagini variopinte della protesta, un video mi ha gelato il sangue. Riprendeva un gruppo di bambini molto piccoli, credo delle elementari, accompagnati in manifestazione da alcuni adulti (i loro insegnanti?), mentre cantavano in coro,ritmando come una filastrocca: «Giù le mani dai bambini / Israele stato di assassini». D’un lampo mi è tornata in mente la frase con cui in Piccioletta barca abbiamo voluto condividere la nostra solidarietà con lo sciopero del 22 settembre: «restituiamo ai bambini la loro vita da bambini». Non mi aspetto che il linguaggio di una manifestazione sia privo di ambiguità e non credo che la presenza di slogan d’odio getti discredito su centinaia di migliaia di persone: moltissimi manifestanti si sono sentiti a disagio di fronte alle affermazioni d’odio nei confronti di Israele, ma hanno comunque ritenuto di portare un messaggio di pace. Ma quando un adulto parla a un bambino, quando mette in bocca a dei bambini delle parole, è tutta un’altra storia: giù le mani dai bambini! Restituire ai bambini la loro vita da bambini significa anche non costringerli a decidere chi è un assassino e chi non lo è, ma soprattutto significa insegnare loro una cultura di pace e non di odio. Con i piccolissimi bambini del ‘Salottino’, tutti di prima e seconda elementare, qualche giorno fa abbiamo letto una favola di Gianni Rodari. Racconta di un bambino che era sette bambini, ciascuno da un paese diverso, con sette storie di vita diverse; eppure quei sette bambini sono un solo bambino, perché tutti sorridono allo stesso modo, vanno in bicicletta e giocano allo stesso modo. Quando diventeranno grandi, dice Rodari, non potranno farsi la guerra, perché sono tutti il medesimo uomo. Se abbiamo inaugurato un percorso per bambini così piccoli, quest’anno, è proprio per dare da subito loro parole di amore e non di morte, perché è questo che un adulto deve fare. Se fossi stato presente mentre alcuni adulti insegnavano a dei piccoli parole di odio, avrei voluto dire questo, ai bambini…
No, cari bambini: Israele non è un popolo di assassini e nemmeno uno stato di assassini. Un popolo è fatto di tantissime persone e uno stato di tantissime istituzioni, molte delle quali servono proprio per evitare che si faccia il male. Non lasciate che qualcuno vi chieda di dividere il mondo intero in buoni e cattivi e non credete mai a chi lo fa. I massacri e i crimini, una guerra condotta contro civili innocenti, non ha alcuna giustificazione. Ma Israele non è un popolo di assassini: Israele è un popolo ferito. Ferito due volte. Prima da un attacco terroristico terribile (l’ultimo di una lunga serie, mai interrotta, in questi decenni), durante il quale sono morte moltissime persone, giovani e anziani, donne a bambini, persone che non avevano alcuna colpa se non quella di essere israeliani. E poi una seconda volta, da una politica che costringe migliaia di giovani a ripetere lo stesso assurdo copione: uccidere persone inermi. Ma queste due ferite si appoggiano su una ferita molto più antica, una ferita inferta tanti secoli fa e poi ripetuta, fino a quella voragine che è stata, per Israele, la shoah, di cui sapete moltissime cose.
Anche i Palestinesi sono un popolo ferito due volte: prima da politiche assurde che per anni li hanno privati della terra in cui abitavano e da una comunità internazionale che ha fatto finta di non vedere. Poi, una seconda volta, da una lotta disperata ma senza quartiere che ha spinto molti di loro a odiare un’intera nazione. Uccidere il tuo nemico è una ferita, non è un atto di coraggio; essere portati a odiare è una lacerazione, non una riscossa, non importa quanto giuste siano le tue ragioni. Anche per i palestinesi queste due ferite si appoggiano su ferite più profonde: la Nakba, l’esodo palestinese del 1948, che ha costretto settecentomila palestinesi a lasciare le loro case, e, prima ancora, secoli di dominazione straniera e di colonialismo.
No, cari bambini: non sono le persone e non sono nemmeno gli stati a essere assassini. Nemmeno i soldati, spesso, sono assassini. Sono ragazzi convinti o costretti a uccidere altri ragazzi o persino civili innocenti: quando tornano a casa la loro vita non è più come prima, è talmente devastata che tanti avrebbero preferito non tornare. Assassini sono le armi, i fucili, gli elicotteri, i droni (tutte cose che si costruiscono qui, in Italia). Assassini sono tutti quelli che hanno alimentato l’odio tra due popoli, spesso con un progetto preciso in mente, il più delle volte mosso da interessi del tutto personali. Assassine sono anche le parole – magari pronunciate con leggerezza – che vi insegnano che c’è un popolo da amare e un popolo da odiare. Provate a immaginare quanto è difficile per un ragazzo palestinese che ha perso tutti e tutto non odiare o quanto è difficile per una mamma israeliana a cui hanno ucciso il figlio il 7 ottobre non odiare. Ma noi no, noi abbiamo la fortuna, il lusso di non essere stati personalmente feriti, abbiamo la fortuna di essere in una situazione più semplice. Per aiutare quel ragazzo palestinese o quella mamma israeliana noi dobbiamo resistere alle parole che ci schierano nel fronte dell’odio. Se il senso della manifestazione è fare qualcosa di utile, allora iniziamo da questo.
Se le cose che ho detto sono troppo complicate, torniamo alla fiaba di Rodari. Ieri era il 7 ottobre, l’anniversario dell’attacco terroristico che ha ucciso tanti ebrei innocenti, l’anniversario di una immensa ferita. Se non l’avete fatto ieri, prendetevi del tempo per ricordare quella ferita, perché la fiaba di Rodari insegna anche questo: che tutti i bambini e tutti gli adulti piangono allo stesso modo. Immaginatevi cosa accadrebbe se, invece di fare delle proprie lacrime un motivo per uccidere, le persone riconoscessero quelle versate dagli altri, così identiche alle loro. Immaginatevi se un soldato ucraino e un soldato russo potessero trovarsi in una stanza e raccontarsi l’un l’altro delle loro mamme che sono a casa e li aspettano, con la paura quotidiana di vederli tornare feriti. Di certo entrambi si sentirebbero meno soli e forse quelle ferite incomincerebbero pian piano a guarire. E magari correrebbero a casa delle loro mamme, lasciando lì i fucili.