
ἜΠΕΣΕ ΜΑΧΟΜΕΝΟΣ”. CADDE COMBATTENDO…

COUP DE THÉÂTRE
SENTIRE IL GRISOU

La nostra giornata di inizio anno, nella quale abbiamo raccolto i ragazzi e le ragazze di seconda e terza media e delle superiori, si è svolta il giorno prima della grande manifestazione che, lunedì, ha domandato al Governo Italiano di prendere posizione contro ciò che sta accadendo a Gaza e in Palestina e di mandare allo Stato di Israele un segnale forte contro i crimini di guerra che molti hanno definito un genocidio. Con molti ragazzi delle superiori, alla vigilia della manifestazione, si è parlato di ciò che sta accadendo e dell’opportunità di partecipare alla manifestazione di piazza. Alcuni di loro sono andati: è stata la loro prima manifestazione e siamo felici che abbiano voluto fare questa scelta, condividendola con le loro famiglie. Non sono stati gli unici: anche alcuni dei grandi sono scesi in piazza lunedì, nonostante la pioggia battente e i tanti impegni all’inizio dell’anno. Hanno raccontato di una folla colorata e pacifica, unita da una comune indignazione per la violenza e dalla certezza che ciascuno di noi abbia un ruolo nell’arrestare l’orrore.
Proprio per questo ho trovato piuttosto disgustoso che, il giorno dopo, nei giornali e nei social, si parlasse soprattutto degli scontri avvenuti, a manifestazione ormai quasi terminata, a Milano. La grande mobilitazione di lunedì, al netto dei soliti facinorosi, pone una domanda molto precisa e molto scomoda, piuttosto: come mai siamo così in ritardo, dopo mesi e mesi di crimini di guerra contro civili e contro bambini? Perché siamo stati così lenti ad accorgerci di ciò che stava accadendo, perché siamo stati (e ancora siamo) così freddi nel domandare in modo preciso che le violenze si arrestino? Come mai le nostre istituzioni, gli ambienti degli intellettuali, le università, arrivano in ritardo rispetto a questi cittadini e cittadine che stanno dicendo che non ne possono più di assistere impotenti alla morte di civili e di bambini?
Una prima risposta, probabilmente ingiusta, ci vorrebbe tutti complici. Non c’è dubbio che ci siano anche delle complicità, non c’è dubbio che l’Italia sia un paese che esporta molte armi e dunque guadagna molto dalla guerra, non c’è dubbio che vi siano interessi economici e politici, alleanza trasversali con un Paese importante come Israele, con le sue istituzioni e le sue industrie. Ma a me non sembra che questa sia l’unica spiegazione, mi sembra che vi sia qualcosa di più strisciante.
Ho recentemente riletto un testo del filosofo francese Georges Didi-Huberman, che si occupa principalmente della storia delle immagini. Il testo si intitola Sentire il grisou (G. Didi-Huberman, Sentire il grisou, Orthotes, Napoli 2014). Il grisou, come molti sanno, è un gas inodore e incolore il cui accumulo ha provocato decine di incidenti e centinaia di morti in tutte le miniere del mondo e della storia. Nel saggio del filosofo, la domanda è: come mai non siamo mai in grado di sentire le catastrofi che arrivano? Come mai non sappiamo accorgerci di questo accumulo di male che la storia di volta in volta crea? Come mai ce ne accorgiamo sempre quando è troppo tardi.
Le grandi crisi che agitano il presente non si sono costruite in una notte. Non solo il risultato di singoli eventi drammatici: sono simili all’accumulo del grisou. Sono il frutto di un odio che si sta accumulando da decenni, a causa di una propaganda sempre più estrema di disumanizzazione dell’avversario. La violenza politica cui assistiamo è cresciuta lentamente con il lento erodersi di luoghi in cui si possa discutere e accettare il contrasto e le opinioni altrui. Allo stesso modo, la debolezza degli organismi internazionali è evidente da molto tempo: basti pensare ai risultati deludenti delle grandi conferenze internazionali sul clima degli ultimi decenni. Lo stesso vale a maggior ragione per le questioni di politica internazionale, nelle quali le risoluzioni dell’ONU sono da decenni inattuate nel silenzio e nella complicità di tutti. È un accumulo che abbiamo preferito non vedere, che abbiamo fatto finta di non vedere o che non siamo stati capaci di vedere. Questo accumulo ha lentamente cambiato la nostra cultura, ha generato una crisi dei valori della democrazia e ha permesso l’accumulo dell’ingiustizia provocata da un sistema di sviluppo che sacrifica molti per il benessere di pochi. Ecco perché la domanda da porci, la domanda da raccogliere dalla manifestazione, è proprio questa: come possiamo imparare di nuovo a vedere il sopraggiungere della catastrofe?
Didi-Huberman racconta che i minatori, per capire quando la concentrazione del grisou stava per diventare eccessiva, portavano in miniera dei pulcini, chiusi in gabbiette, perché si pensava che fossero in grado di segnalare il pericolo. A suo avviso i nostri pulcini sono le immagini. Il saggio, infatti,è dedicato a un film di Pierpaolo Pasolini intitolato La rabbia, del 1963. Si tratta di un montaggio poetico di immagini tratte della televisione di quegli anni. Le immagini, grazie al genio di Pasolini, mostrano chiaramente l’indizio della catastrofe che sta arrivando. Si susseguono scene di violenza e di morte insieme a fotogrammi tratti dal mondo della moda, del consumo, della politica. Nel confronto drammatico degli opposti non si può che prevedere la crescita fatale dell’odio e della tensione sociale. Proprio nei mesi in cui prepara il montaggio del film, Pasolini scrive che a partire dal dopoguerra abbiamo preteso di vivere in un clima di normalità. «L’uomo tende a addormentarsi nella propria normalità – dice – e perde l’abitudine di giudicarsi e non sa più chiedersi chi è». Ecco, io credo che il motivo per cui arriviamo troppo tardi di fronte alle catastrofi sia questo sonno della pretesa normalità; non si tratta – almeno in prima battuta – di complicità, ma dell’illusione di pace che abbiamo coltivato in Occidente, smettendo di chiederci chi faccia le spese del nostro stile di vita. Noi lo diciamo spesso ai ragazzi: senza verità non c’è giustizia e senza giustizia non possono esserci normalità e pace.
È tempo, allora, di riguardare le nostre immagini, quelle di cui ci nutriamo in modo bulimico, nel presente digitale: vedremmo con chiarezza il sopraggiungere della catastrofe e forse sapremmo anche fermarla. Beatrice Gatteschi, pochi giorni fa, mi diceva la forte impressione che ha avuto, sabato, vedere a Milano la folla dei partecipanti alla Beauty week e, nello stesso giorno, l’immagine di un bambino palestinese che scappava dalla distruzione portando in spalla la sorellina. Queste immagini ci parlano e di fronte a esse dobbiamo chiederci seriamente se davvero desiderariamo questa normalità o se non sia il tempo di svegliarci e provare a fare seriamente fronte all’accumularsi catastrofico di un’aria irrespirabile. La buona notizia è che la manifestazione è l’occasione per farlo; la buona notizia è che forse non è troppo tardi: le guerre finiscono sempre e possono finire anche oggi, se lo vogliamo.