
LA PAROLA DATA

“CARO LINDER…”: I LIBRI DIETRO LE QUINTE
PAROLE ALATE

Che bello che il primo grande legislatore ateniese fu anche il primo autore ateniese della letteratura greca…! Di famiglia nobile, Solone, eletto arconte nel 594 a.C., quando l’armonia in città era seriamente minata dalle contese fra proprietari terrieri e popolo, diede vita a una importante riforma istituzionale che, partendo dall’abolizione della schiavitù per debiti, passando per la protezione dell’agricoltura, la riforma monetaria, l’istituzione del tribunale popolare, giunse alla classificazione dei cittadini in base al censo, con diritti e obblighi proporzionati alla classe di appartenenza. Un lavoro immenso in un solo anno di governo (terminato il quale, Solone si allontanò volontariamente dalla città per non essere di ingombro ai suoi successori…), fondamento della prima grande democrazia della Storia, la cui nascita si fa coincidere proprio con Solone, grande legislatore e grande poeta. La poesia soloniana, che intrecciò oltre cinquemila versi, rientra nel genere della lirica arcaica ma, con lui, alla consapevolezza dell’autonomia del singolo, propria di tutti i lirici, si aggiunge la coscienza della fondamentale funzione politica della poesia: voce per suscitare l’impegno di ogni individuo nei confronti della sua comunità e propiziare l’equilibrio fra esigenze del singolo e esigenze della collettività.
Fra i versi più noti e importanti di Solone, è l’elegia intitolata Eunomia, buon governo, dove il poeta – proprio come canterà, tanti secoli dopo, Dante per la sua Firenze! – denuncia la cupidigia come causa prima del male della città e vi contrappone la sapienza del buon governo che annulla le contese e promuove la giustizia: lo sforzo di Solone mira dunque a ristabilire la moralità pubblica, unendo alla riforma delle strutture anche una riforma delle menti e delle coscienze: lì dentro, nella testa e nel cuore, può volare solo la parola alata della poesia.
Una lunga introduzione che, a leggerla anche fra le righe, mette subito in evidenza una profonda diversità della legge e della giustizia greche rispetto a quelle considerate fino a ora. Andiamo con ordine:
Primo aspetto: alla legge babilonese e alla legge ebraica non possiamo affiancare una legge greca. È noto che la realtà ellenica non conobbe unità se non in rarissime circostanze emergenziali e che la popolazione visse divisa in città-stato, ognuna delle quali ebbe una sua costituzione. Non dobbiamo immaginare differenze abissali fra l’una e l’altra, certo, ma comunque ciascuna legislazione aveva sue peculiarità dipendenti dalla forma di governo, dalla composizione della cittadinanza, dalla storia e dalle consuetudini, dalla posizione geografica e dalle attività primarie.
Secondo aspetto: non tutti i legislatori greci, certo, furono poeti al pari di Solone ma, benché esistano episodici e occasionali ritrovamenti epigrafici, non si può certo dire che la legge greca fu scolpita sulla pietra!
Conosciamo le norme e conosciamo, soprattutto, lo spirito delle leggi greche massimamente attraverso opere letterarie: dai poemi epici alle tragedie, dalle commedie alle grandi orazioni, ai dialoghi.
La lingua greca è fluida, le parole hanno le ali, le strutture non sono rigide e un termine ha talvolta significati opposti: una lingua troppo poco quadrata per essere incisa nella pietra, infissa in una strada e, tanto meno, rinchiusa in una cassa. La cultura greca è fondamentalmente orale.
E veniamo al terzo e più complesso e più appassionante aspetto: il rapporto uomo — legge — divinità. A Babilonia, il grande dio consegna la legge al re Hammurabi: il re si interpone fra il dio garante e il popolo. La Bibbia osa di più: non solo il re, ma tutti hanno accesso a Dio. Lo spirito della legge parla a ciascuno, Mosè è un condottiero, non un mediatore.
In Grecia, invece, gli dèi non sono garanti della giustizia. L’Olimpo greco è affollato di dèi antropomorfi, con pregi e difetti, vizi e virtù, capricci persino, tanti capricci. Quel gran donnaiolo di Zeus è padre degli dei e degli uomini per una questione di potere, non certo di affetto: ricordiamo Prometeo, che ruba il fuoco al banchetto divino per consegnarlo agli uomini perché, come ci ha insegnato Esiodo, gli dei non hanno pensato per l’uomo una vita facile; ricordiamo un po’ anche la Natura di Leopardi che chiede ironica al povero Islandese: ma davvero pensavi che tutto questo fosse fatto per voi? No, gli dèi se ne stanno lassù con le loro drammatiche preferenze, con le loro rivalità e i loro giochetti di potere, nei quali l’uomo greco cade inevitabilmente. L’uomo greco, infatti, compie una colpa quando manca di rispetto al dio, il quale inesorabilmente lo punisce: quale dio? Tutti gli dei, e siccome sono moltissimi e quasi sempre hanno gusti e esigenze diverse, è impossibile non fare prima o poi torto a uno di essi. Senza contare che la colpa non si estingue con una pena immediata, ma passa di generazione in generazione e chi soffre sconta probabilmente una pena lontana nel tempo e nello spazio: il nostro pensiero unanime vola all’eroe di tante nostre accademie: Edipo.
Esiste un abbozzo di gerarchia anche nella società greca: al di sotto gli uomini ignari; sopra di loro, gli dei maldestramente governati da Zeus; sopra Zeus, però, incombe un destino al quale nemmeno lui può sottrarsi. Ha diversi nomi questo destino: ciascuno indica, con sfumature diverse, la parte assegnata a ogni essere umano, ma resta comunque un mistero chi sia responsabile di questa consegna. Dèi, sorte, destino, Zeus sono entità per così dire intercambiabili: ogni uomo è trascinato da una parte e dall’altra da energie, sentimenti, stati d’animo, spinte interiori diversi e conflittuali, agisce e non sempre conosce appieno la motivazione delle sue azioni, in un guazzabuglio di fede, ragione, sentimento, fatalismo dove non è mai chiaro fino in fondo cosa sia giusto e cosa sbagliato, chi abbia torto e chi ragione: un guazzabuglio comune ai Greci, che per primi lo hanno individuato e raccontato, ma anche a tutti noi, uomini del XXI secolo…
Al cuore della cultura e della letteratura greca batte potente il mito – che mai fu e sempre è, come sapientemente lo definisce Sallustio – e al cuore del mito batte il cuore di un uomo tradito: Menelao abbandonato dalla bella Elena, causa di stragi infinite, di lutti e dolori. Il rapimento di Elena mette in moto una concatenazione infinita di eventi che danno materia alla imponente e immortale produzione letteraria greca. Nemesi! Vendetta: l’onore di Menelao è stato violato e gli va restituito: si muove il fratello Agamennone, a capo dell’intero esercito greco, e comincia la terribile guerra di Troia. Una bonaccia impedisce alle navi greche di partire ed ecco che Agamennone è chiamato dal dio a sacrificare l’innocente figlia Ifigenia: la morte di lei è vento che gonfia le vele achee. Dieci anni di scontri e poi l’imbroglio del cavallo di legno e la vittoria achea. Agamennone rientra a Sparta e ad attenderlo è la moglie Clitemnestra che, inconsolabile per la morte della figlia, insieme al nuovo compagno, lo uccide. Anni dopo, arriva il principe Oreste, fratello della giovane sacrificata, chiamato da Moira – la parte a lui assegnata – per bocca dell’oracolo delfico, a restituire onore al padre, uccidendo la madre. Le terribili Erinni, personificazioni della vendetta nei confronti di chi fa violenza ai congiunti, infuriate, perseguitano Oreste che alla fine verrà giudicato dal tribunale dell’Areopago e assolto grazie all’intervento del tutto arbitrario di Atena.
In una storia tanto intricata, chi ha veramente ragione? Dov’è la verità ultima, la garanzia di giustizia che la stele di Hammurabi affidava nel bassorilievo al passaggio di consegna fra il dio e il re? Tutta la guerra di Troia è una grande ingiustizia perché, seppure sia vero che Elena abbandonò il marito ferendone l’onore, è anche vero che, a sua volta, fu vittima di Afrodite che l’aveva trattata come merce di scambio, garantendola a Paride a fronte di un voto in una gara di bellezza divina…
Elena, in una versione del mito, è figlia di Nemesi: la dea che stabilisce l’ordine (il verbo νέμω vale dispongo in ordine e da esso deriva tanto il sostantivo νέμεσις, vendetta, quanto la parola fondamentale di quest’anno: νόμος, legge) e che punisce chi lo vìola. Ma alla catena di rivendicazioni e vendette va pur posto fine, se si vuole vivere in armonia, secondo quell’ordine, κόσμος, così caro all’uomo greco!
Ecco l’intervento di Θέμις, Themis, dea ctonia, una dei primi dodici Titani, personificazione della giustizia celeste. Il suo nome deriva dal verbo τιθήμι che significa io pongo, colloco e descrive un atto ben preciso ed evidente. A buon diritto, Themis è l’unica divinità della prima generazione a raggiungere l’Olimpo e a sedere addirittura in trono come seconda moglie di Zeus, cui elargisce buoni consigli. Dalla loro unione nasce Δίκη, Dike, figura della giustizia terrena. È lei a indicare (la radice del nome sarebbe la stessa del verbo δείκνυμι, io mostro, indico) la via dell’ordine alla polis democratica, che nasce proprio nel momento in cui si spezza la catena di vendette, ritorsioni e ricatti, e si riconosce lo spazio dell’altro, la sua prospettiva e persino il suo dolore: solo allora si creano le condizioni per vivere in equilibrio il più possibile stabile e armonico, come suggerisce la bilancia che sempre accompagna l’immagine di giustizia.
Solone canta di una legge che sia giusta misura e che ponga fine alla dismisura, mentre il sipario dell’Iliade, poema della guerra e dell’ira del pelide Achille che infiniti addusse lutti agli Achei, si chiude sulla tenda dell’eroe, dove un vecchio padre dal cuore straziato bacia la mano che ha trafitto a morte il figlio: l’uccisore, piangendo vede nel vecchio il suo stesso padre, e rivolgendogli ἔπεα πτερόεντα, parole alate, riconosce il suo dolore e acconsente a restituirgli il cadavere del figlio. La giustizia incomincia dove si ferma la vendetta.