
IL VISIBILE E L’INVISIBILE DELLA LEGGE

PAROLE ALATE
LA PAROLA DATA

La sfida dell’Accademia di quest’anno, in Piccioletta Barca, è ardita. Non solo perché il nuovo tema, la legge, rischia di apparire indigesto a chi, quasi per definizione, vive un’età in cui la trasgressione è un passaggio quasi obbligato. Non solo perché spesso, tra ragazzi, infrangere le regole di fronte agli amici diventa un punto d’onore. La difficoltà non proviene neppure dai modelli negativi, dai cantanti che si sfidano a singolar tenzone come i signorotti del passato o dagli attori che si rovinano con droghe leggere e pesanti. Tutto questo è noto e forse, in qualche misura, ogni epoca si è trovata di fronte al medesimo problema di fronte alle nuove generazioni.
Ciò che rende oggi inedito lo scenario è, piuttosto, il palese, persino spudorato regime di leggerezza in cui vive il mondo degli adulti: a fronte di questo non c’è educazione civica che tenga. Le Nuove linee guida del Ministero dell’Istruzione e del Merito per l’insegnamento dell’educazione civica hanno un bel dire che insieme ai diritti bisogna insegnare «anche i doveri verso la collettività». In modo forse un po’ enfatico, affermano che «l’importanza di sviluppare anche una cultura dei doveri rende necessario insegnare il rispetto per le regole che sono alla base di una società ordinata, al fine di favorire la convivenza civile, per far prevalere il diritto e non l’arbitrio». Ma come possiamo sostenere seriamente questa necessità se noi, il mondo degli adulti, mostriamo sempre più una sostanziale incapacità di rispettare le regole e di esibire una «società ordinata»? Da quattro anni, nella scuola, si è deciso di dedicare uno spazio specifico all’educazione civica. È una scelta importante, eppure la scuola è incominciata e siamo già alle prese con scene che si ripetono da decenni: cattedre scoperte, docenti precari, insegnanti di sostegno inesistenti. Per non parlare dei docenti (i meno pagati al mondo, leggevo qualche tempo fa), prigionieri di concorsi e abilitazioni onerosi che promettevano stabilità e che non hanno ancora prodotto, dopo mesi, alcun risultato. Con la disponibilità di nuovi fondi, non si può più nemmeno incolpare la mancanza di risorse. Sembra quasi che ci sia una caparbia, pervicace, quasi inesorabile intenzione di fare della scuola l’esempio più lampante di ciò che una società ordinata non può in nessun caso essere. È difficile spiegare ai nostri ragazzi l’equilibrio tra diritti e doveri se il nostro Paese non è in grado di adempiere in modo dignitoso al dovere dell’istruzione.
Le défaillance della scuola sono solo la punta di un iceberg. Assistiamo quotidianamente, nei conflitti che affliggono il nostro tempo, a una caparbia violazione di ogni regola internazionale: bombardamenti su civili, vere e proprie invasioni chiamate operazioni di polizia, cacce mortali agli avversari anche in paesi non belligeranti. Risoluzioni internazionali sono quotidianamente aggirate, se non direttamente violate. Scrivere nella costituzione che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11) e poi fare tacere la diplomazia e moltiplicare le spese militari non è solo un problema di politica estera: è un problema di fedeltà a quella parola che ci costituisce in quanto popolo.
Piccoli e grandi tradimenti si ripetono anche nelle nostre relazioni quotidiane: è sempre più difficile, per noi adulti, dire dei no; così spesso ci lasciamo strappare dai ragazzi promesse che non siamo in grado di mantenere e ci affidiamo alla speranza che le dimentichino.
L’educazione alla legalità non passa né per lezioni teoriche, né per un vago richiamo ai valori della patria: ciò che occorre è l’esperienza pratica, reale, tangibile di una vita comune ordinata da regole giuste e efficaci, ma soprattutto da quello stesso spirito che ci ha permesso di scriverle. Per questo parlare di legge diventa quasi impossibile, di fronte a promesse tradite e parole non mantenute, perché alla radice della legge sta un principio: non venire meno alla parola di bene data. Non a caso la figura della legge – da Hammurabi in poi, passando per la Bibbia – è un testo inciso nella pietra, destinato a rimanere nel tempo, a non essere consumato dagli eventi e, soprattutto, a essere riletto di generazione in generazione, affinché la promessa non venga meno e non sia dimenticata.
In Piccioletta Barca facciamo così: quello che diciamo, lo manteniamo sempre. Se promettiamo un’attività, un viaggio, persino una festa, costi quel che costi noi ci siamo. Anche quando, come talvolta capita, ci sbilanciamo nell’impeto dell’entusiasmo, non del tutto consapevoli delle difficoltà che incontreremo. Non importa: una volta promesso qualcosa facciamo di tutto per realizzarlo e, per ora, ce l’abbiamo sempre fatta. Questa ingiunzione a rispettare le promesse è fondamentale soprattutto nel mondo del volontariato e del dono: è proprio in questo spazio che si genera il senso della legge, ossia là dove a vincolare non c’è un contratto commerciale, ma esclusivamente la parola data. Ci commuove sempre quando un nostro volontario universitario riesce a mantenere il suo impegno nonostante la sessione di esami o la tesi da scrivere o quando un giovane maestro di musica fa i salti mortali per preparare un saggio di fine anno nonostante le date dei suoi concerti. Questa serietà è la più grande evidenza di quell’ingiunzione che accompagna, nell’umano, la parola data, senza la quale non esiste alcun senso della legge.
Non è certo un caso che questo tema arrivi dopo diversi anni di attività della Piccioletta Barca, quando la maggior parte dei nostri piccoli soci ci conosce da tempo e sa di essere preso sul serio. Ed è solo nel non-detto di questa serietà che possiamo chiedere ai ragazzi di non venire meno alla parola data, prima ai loro amici e poi al mondo che li circonda. Così la legge si rianima: non è più solo un’imposizione fastidiosa, né un freddo strumento per risolvere i contenziosi, ma un’esigenza profonda dell’esistenza umana.