
I QUARANTA GIORNI DEL MUSSA DAGH — parte 2

I QUARANTA GIORNi DEL MUSSA DAGH — parte 3
INSEGNARE, DENTRO E FUORI LE MURA

“Prima di dire che una cosa non serve, imparala”. A parlare è il professor Marin, che si rivolge a una classe di terza media. Ad ascoltare ci sono anche io, in una delle occasioni cinematografiche che mi concedo, beneficiando della ricchezza della Rete, e subito il pensiero corre ai nostri giovani soci, che quotidianamente occupano i banchi delle scuole medie del quartiere.
Palma d’Oro a Cannes, nel 2008, premio Lumière 2009 come miglior film, “La classe — entre le murs” è un film di Laurent Cantet, tratto dal romanzo omonimo e autobiografico di François Bégaudeau, che è anche il protagonista della pellicola. La trama ci porta dentro le mura di una scuola di periferia multietnica, marginalizzata, attraversata da storie familiari difficili, uno spaccato della società francese dove il tema della convivenza e dell’integrazione ha spesso toni molto accesi. Lì, professori, armati delle migliori intenzioni, si impegnano a far sì che nulla impedisca di fornire la migliore istruzione possibile ai loro studenti. Riuscire nell’intento è un’altra cosa, perché i giovani adolescenti possono essere divertenti e fonte di ispirazione, ma i comportamenti turbolenti mettono a dura prova l’entusiasmo di insegnanti che si sentono gettati in una trincea mal pagata, e che finiscono per cadere in contraddizioni nel dire e nel fare. François Marin insegna francese, è pacato, osservatore, ama la parola, alla quale riconosce la capacità di fare incontrare e confrontare e che vorrebbe fare apprezzare ai suoi studenti, così, li coinvolge in un progetto di scrittura autobiografica: “autoritratto è raccontare quello che fai e quello che ti accade, autobiografia è trovare parole per quello che sei”. Si rivolge ai ragazzi in modo diretto, aperto, vorrebbe condurli al rispetto e all’ordine. Sembra fare breccia ‑forse — In quell’aula dove si respira un’aria statica, ma la situazione presto precipita, inciampando proprio sulle parole. Una, estrapolata dalle rappresentanti degli studenti nel consiglio di istituto e riportata decontestualizzata e mutata di senso, e l’altra, pronunciata dal professore che, perdendo la calma, si fa trascinare nel gergo offensivo dei suoi studenti, a discapito della propria credibilità. Da lì, le mura che racchiudono la storia si fanno più strette: lil ribelle Souleymane finisce dal preside per indisciplina (colpisce il colloquio con la madre, che non sa una parola di francese e con un volto senza espressione si incaponisce in una banalizzante difesa del figlio), il ragazzi viene espulso e punito dalla famiglia, che lo costringe a tornare al Paese di origine; Wei, studente cinese al suo primo anno in Francia, deve abbandonare la scuola per seguire la madre, espatriata per permesso di soggiorno scaduto; i compagni sfuggono ormai completamente al dialogo con il professore e una di loro, alla domanda finale su cosa abbia imparato nell’anno, risponde: “io non ho imparato niente, non capisco niente.”
Film amaro, ma anche complesso, fortemente politico e ricco di spunti. E alcuni possono riguardare anche noi.
Il pensiero va al quartiere e alle scuole che frequentano i nostri piccoli soci, un melting pot di etnie, accettato, ma non ancora pienamente felice. La scuola è il luogo dell’incontro, ma anche della sintesi, dove, studiando, si cresce insieme come cittadini, si è educati al bene comune e alle opportunità. Bambini che sono nati, nascono e vivono nel nostro Paese, affrontando anche le difficoltà di essere prima generazione in nuova terra, con famiglie che, a volte per semplice disparità linguistica, non riescono, pur volendo, a sostenerli completamente nel loro percorso. Per questo, stranisce sentire uscire dal Governo voci di ipotetiche limitazioni al 20% della presenza di stranieri nelle scuole: pensiamo solo a giocare al ribasso e chiamiamo straniero chi ci vive accanto privato dello ius soli.
“Prima di dire che una cosa non serve, imparala”. Ritorna quella frase che sottolinea uno degli ostacoli più grandi nel dialogo tra un maestro e un ragazzo: a che cosa serve? Ed è un ostacolo che evidentemente non è legato, come spesso si pensa, all’invadenza dei social, portatori di un’idea di realizzazioni a basso costo. E’ quasi un conflitto tra generazioni, la difficoltà di accettare il testimone di chi ha vissuto prima di noi, è la riduzione al puro utilitarismo di ogni pensiero e ogni azione, mentre, come spesso spieghiamo ai nostri ragazzi, vivere è molto di più, la cultura non è semplice sapere, è un modo di guardare e stare nel mondo. E l’incontro con un maestro può fare davvero la differenza. Insegnare e imparare sono atti di fiducia, che si fondano sulla condivisione di parole grandi, importanti, ricche: la fiducia che quello che si consegna a un ragazzo sia un seme di potenziali fioriture, la fiducia che le parole ricevute, le cose imparate, siano una forza che si porta dentro, per qualsiasi momento della vita.
Ci sono le mura che non solo uno spazio fisico definito, ma diventano barriere sociali, generazionali e del pensiero, un limite da superare e che continuamente richiama a sé. Ancora oggi, un ragazzo che nasce in periferia sembra destinato a una vita e a opportunità ai margini, a sogni con ali piccole, a scelte obbligate. Studiare è una leva potente di libertà, la scuola ha un compito enorme, ma non può fare tutto da sola, occorre che anche fuori dalla scuola ci siano adulti che facciano sentire ai ragazzi che l’orizzonte è grandissimo, che c’è spazio e attesa per i loro desideri, per l’impegno che metteranno nel realizzarli e diano loro gli strumenti per conquistare le opportunità. La Piccioletta Barca è una breccia nelle mura.
Con il mito della caverna di Platone abbiamo spiegato ai ragazzi che le ombre che gli uomini vedono proiettate sulle pareti della caverna si fingono realtà, ma non lo sono: la realtà si trova fuori dalla caverna. La cultura è la luce che guida, fuori dalla caverna, fuori dalle mura. Per tutti, basta essere “desiderosi d’ascoltar”.