
SPERANZE

SETTANTASETTE MERAVIGLIE E UNA RISPOSTA
LA TERZA F

Con una certa incoscienza, il primo ottobre 1973 (mezzo secolo fa) alle 9 del mattino, mi trovo all’ingresso della “scuola media sperimentale” situata in Via Catone. Non posso definirla in altro modo, perché la scuola non aveva – e non avrà – un nome proprio, veniva indicata così: la scuola di via Catone.
Al mio arrivo, una folla di ragazzi attende l’apertura della porta a vetri, che qualcuno dovrà pur aprire, visto che vi si accalcano trecento ragazzi! In seguito, scoprirò che erano i ragazzi delle classi seconde e terze, i “primini” sarebbero arrivati più tardi, alle 10.30. Noto che, insieme ai ragazzi, sono presenti alcuni adulti, ma non hanno il look tipico dei miei colleghi di Legnano, cioè insegnanti in giacca e cravatta, se maschi, abiti da signora con giro di perle e foulard, se femmine. Strano, qui i professori sono vestiti in modo più disinvolto: jeans, camicie a scacchi, maglioncini comprati alla fiera di Sinigaglia e, ai piedi, le mitiche Clarks, modello Desert Boot. Almeno l’abbigliamento dei professori mi rassicura, perché anch’io vesto allo stesso modo, ma a Legnano mi ero resa conto di non essere esattamente in linea con il corpo docente e avevo riesumato una serie di gonne, camicette e cappottini più adatti al ruolo.
La porta a vetri si spalanca – doveva essere di un vetro speciale, molto resistente – e ragazzi in frotta entrano vociando, infilandosi lungo le scale che portano alle classi. Evidentemente sanno già in quale classe andare, informazione che invece a me manca del tutto. Mi guardo attorno per cercare qualcuno in grado di fornirmi qualche indicazione e, Deo gratias, intercetto un bidello con un foglio: “Lei deve essere la prof. nuova, venga che le spiego, deve salire al secondo piano, la sua classe è in fondo al corridoio a sinistra, è la terza F”.
Seguo le indicazioni e mi trovo davanti all’aula in cui avrei trascorso l’anno scolastico, dietro a una cattedra. Entro, guardo i miei venticinque allievi, fortunatamente maschi e femmine, e mi rendo conto che non stanno facendo baccano, nessuno si rincorre per la classe, ma tutti sono seduti dietro un banco e non fanno alcun cenno di alzarsi, come era costume nella mia precedente esperienza. Stanno zitti e mi guardano, io ho subito l’impressione di avere davanti ragazzi e ragazze più grandi dei 13- 14 anni previsti per una terza media, sembrano molto più grandi e soprattutto mi impressiona il loro sguardo, dal quale capisco che mi stanno “prendendo le misure”, mi stanno valutando. È vero che sto per compiere 26 anni, non sono quindi un’insegnante novella, ma avverto un po’ di disagio. Che ragazzi e ragazze sono? Non sono ragazzini scatenati da domare, ma adolescenti da incontrare e conoscere. Mi avvio alla cattedra e mi accorgo che non c’è un registro con i nomi dei ragazzi, la cattedra è desolatamente vuota, esattamente come i banchi dei ragazzi.
Devo decidere come muovermi, nel vuoto e nel silenzio, con cinquanta occhi che mi osservano. Mi viene in soccorso non l’esperienza di insegnamento, ma l’abitudine a stabilire rapporti con le persone e inizio a presentare me stessa, dicendo loro il mio nome, quello del mio recentissimo marito, dove vivo, quale conoscenza ho del quartiere, i luoghi classici della Bovisa, quartiere in cui sono nata e cresciuta, le amicizie che sto vivendo anche a Dergano, dove è nato e cresciuto mio marito. Quest’ultima informazione è strategica perché i ragazzi appartengono a entrambi i quartieri e il residuo di un’antica rivalità potrebbe ancora essere presente. Poi racconto quali scuole ho frequentato nella zona e di fatto l’asilo e la scuola elementare sono le stesse in cui molti di loro sono stati scolari.
L’atmosfera diventa subito più amichevole perché abbiamo molte conoscenze in comune, i luoghi sono familiari, alcuni insegnanti della scuola elementare erano “giovani maestri” quando io ero una scolaretta con il grembiulino bianco e, successivamente, sono stati i “vecchi maestri” di alcuni di loro. Incomincio a percepire un legame con la classe e, da quel momento, li penso come i “miei” ragazzi.
Il ghiaccio si scioglie nelle parole, i ragazzi annusano, sentono la paura o la fiducia, il distacco o l’empatia, l’autorità o l’autorevolezza e si muovono sapientemente e automaticamente di conseguenza.
Come “fare scuola” senza libri, senza voti, anzi con dieci in pagella per tutti in tutte le materie, rimane per il momento misterioso, ma per i miei ragazzi sono pronta a inventare tutto e di più.