
IL FUTURO IN MOVIMENTO

SULL’OCEANO: STORIA DI UN POPOLO
LIBERAZIONI E FASCISMI

Le feste civili — ma accade anche a quelle religiose — viaggiano su un sentiero sottile. Da una parte c’è l’indifferenza, dall’altra la retorica. L’indifferenza è, tra i nostri ragazzi, l’atteggiamento più diffuso. Non è colpa loro, semplicemente i racconti si fanno sempre più rari, le generazioni che hanno coltivato i valori civili (la libertà, l’uguaglianza, il diritto di voto, la democrazia) sono invecchiate; di molte cose che fino a ieri erano affidate ai racconti dei nonni si è persa la memoria viva. Sono pochissimi, ormai, i sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti: ancora qualche decennio e non avremo più testimoni oculari della Seconda guerra mondiale. A questo pericolo rischiamo di rispondere cadendo inesorabilmente nell’altro: quello della retorica. Ogni festa ha la sua retorica, intendiamoci: parole, canzoni, discorsi, colori. Ma il rischio che la retorica della festa diventi la festa della retorica è sempre dietro l’angolo. La festa della retorica ripete ossessivamente se stessa, senza badare all’interlocutore ed è una malattia più diffusa di quanto si pensi.
Abbiamo provato, in occasione del XXV aprile, a percorrere il sentiero stretto tra i due cammini, cercando di spiegare ai ragazzi cos’è stato il fascismo, cos’è stata la lotta partigiana e per quale motivo la festa della Liberazione è festa di tutti gli italiani e non solo di una parte. I racconti, le immagini e persino un film, hanno ridestato la loro curiosità, hanno vinto l’indifferenza, ma non ci hanno messo al riparo dall’altro baratro: quello della retorica. Per farlo occorre rispondere a un’altra domanda, ben più scomoda: cos’è il fascismo, oggi?
In un libro scritto negli anni della caduta del muro di Berlino, in cui va alla ricerca del fil-rouge attraverso cui comprendere il Novecento, il filosofo francese Michel Henry propone una definizione di fascismo: qualunque dottrina che più o meno apertamente, persegue la svalutazione dell’individuo. La lotta contro l’individuo, nel fascismo, va di pari passo con la glorificazione della forza. Si tratta, però, di una glorificazione ideologica e ottusa, basata sulla differenza tra la fragilità e la durezza: la forza si oppone alla debolezza, cerca il soggetto debole, lo perseguita e lo schiaccia, quasi immaginando che la sua umiliazione possa esaltare il mito della forza. È su questa via che il nazismo, ad esempio, ha inaugurato la sua opera di sterminio con la persecuzione dei disabili, nell’Aktion T4, ben prima che degli ebrei. Dasein ohne Leben, venivano chiamati: esistenze senza vitalità, senza forza. I campi di concentramento tristemente noti avevano questa orribile caratteristica, già prima della soluzione finale che li votò allo sterminio: riducevano i prigionieri (ebrei, Rom, omosessuali, ma anche prigionieri politici) a esistenze senza forza, senza vitalità. Il Lager, in questo senso, è la rappresentazione più terribile dello spirito fascista, e fu una struttura drammaticamente necessaria al sistema nazista, non un incidente di percorso. Molti storici si sono interrogati sull’immensa perdita di manodopera che caratterizzò la macchina nazista: invece di usare milioni di prigionieri per lavori utili al Reich, furono impiegati in opere del tutto inutili. Proprio questo era, probabilmente, lo scopo: generare una massa di persone fragili, inutili in se stesse. Non un nemico doveva essere eliminato, ma la debolezza in quanto tale, la fragilità stessa. Quella fragilità che, inutile dirlo, appartiene a ciascuno di noi e la cui visione è insopportabile al sistema fascista.
Nel fascismo, oltre all’orrore, c’è un fondamentale errore metafisico, sostiene il filosofo: nessuna forza è mai separabile dal bisogno, dalla volontà, da ciò che vi resiste. La forza della vita, quella vera, si applica sempre a qualcosa che resiste per poi cedere. Per questo non esiste, in natura, la forza in se stessa: anzitutto perché qualunque potere è sempre relativo (esiste sempre qualcuno più forte di te, più intelligente, più brillante), sia perché la tua stessa forza, quella più sorprendente, emerge in quella riserva inattesa che ciascuno scopre di avere proprio quando pensa di aver finito le forze. La vera forza sono gli ultimi metri prima della cima, quando le gambe non reggono più, la vera forza è il colpo di reni che ci fa reagire quando tutto è perduto, la vera forza è quella che non credevi di avere. In una parola: la forza della vita più sconvolgente è quella dei deboli.
Senza dubbio la sconfitta del nazifascismo fu dovuta all’intervento degli Alleati, ma la beffa più grande che ricevette, l’affronto più umiliante fu forse la Resistenza partigiana. La resistenza si organizzò di casa in casa, a partire da cittadini comuni, da donne, giovanetti e anziani improvvisati combattenti, da famiglie comuni che li aiutavano quotidianamente. Questa forza dei deboli, ben più sorprendente degli sbarchi americani, deve essere apparsa l’insopportabile dimostrazione della vacuità del mito della forza. Lo mostra, tra l’altro, l’efferatezza delle stragi di Marzabotto — dove quest’estate porteremo i nostri ragazzi — consumate contro una popolazione civile e inerme, fatta per lo più di anziani, donne e bambini.
Senza sminuire né dimenticare gli orrori del nazifascismo, cerchiamo di spiegare ai ragazzi che questa ottusità è ben più comune di quanto non si creda e che da essa dobbiamo guardarci sempre, anche oggi. In un tempo così competitivo, in cui un’economia sviata procede talvolta senza guardare in faccia a nessuno, in un mondo che si riempie la bocca di eccellenza e di merito, il rischio del fascismo (magari un fascismo più strisciante e nascosto e dunque più pericoloso) è sempre dietro l’angolo. L’efferatezza della violenza, d’altra parte, è solo questione di abitudine: si incomincia sempre con piccole sopraffazioni, ma da queste è fin troppo facile passare alla crudeltà. La radice profonda che occorre stanare — soprattutto negli anni in cui si diventa grandi — è l’incapacità di riconoscere la propria debolezza, l’incapacità di averci a che fare con serietà e con impegno, senza fughe e senza tragedie. Forse l’inizio di ogni fascismo è la pervicace paura di amare noi stessi, così come siamo, con le nostre contraddizioni che sono sempre anche il luogo del nostro possibile riscatto e della nostra inaspettata riserva di forza.
Credo abbia ragione Michel Henry quando attribuisce al fascismo l’odio per l’individuo, l’esaltazione della razza, della classe, del popolo, il corporativismo ottuso che chiede alla vita personale di azzerarsi per il buon nome della causa suprema. Credo che si radichi in un oscuro odio per quella debolezza che ciascuno di noi, in fondo, è. Ripetere ai ragazzi il valore della loro unicità, difenderli da chi li inchioda a un giudizio, fare luce negli abissi che talvolta alcune delusioni della vita possono spalancare, ricordare sempre che ciascuno di loro è insostituibilmente sé, ma anche accompagnarli in un serio cammino per tirare fuori quella forza che talvolta è nascosta a loro stessi: questa è la Resistenza che alla Piccioletta Barca cerchiamo di condurre.