
CINQUE PIETRE PER COSTRUIRE LA LEGALITÀ

LA SCELTA DEL DIFFICILE. CARI GENITORI,…
UTOPIA, UNO SGUARDO CAPACE DI RIDERE DEL MONDO

Difficile parlare di futuro senza fare riferimento alle speranze, alle attese di bene, ai sogni. Difficile parlare di questi senza che venga alla mente un sospetto: e se fosse solo un’utopia? E, se lo fosse, che cos’è esattamente un’utopia? La parola utopia ha una storia che, per noi, raccontare è irresistibile: fino al 1515 non esisteva nemmeno, è una delle poche parole di uso comune della quale conosciamo persino l’inventore. Il suo nome è Thomas More, anzi Sir Thomas More. Ministro della Corona, grande filosofo e uomo politico, martire della libertà a causa di un sovrano, Enrico VIII, che egli aveva servito con fedeltà per decenni e il cui Atto di supremazia, pubblicato nel 1534, More non volle firmare: pagò la scelta coraggiosa con la sua stessa vita e si dice che la sua testa decapitata sia rimasta esposta per giorni fuori dal palazzo del Re.
Nel 1515, ancora all’apice della sua carriera politica, More pubblica un libretto che entrerà nella storia — sebbene forse oggi non siano così tanti quelli che l’hanno letto davvero — e che si intitola, appunto, Utopia. Fu talmente importante e rivoluzionario che lo ritroviamo tradotto in tutte le lingue nel giro di pochi anni; tradotto, stampato e diffuso nei maggiori centri della cultura europea. Di Utopia hanno parlato in tanti; qualcuno l’ha celebrato come il primo progetto di comunismo della storia dell’uomo; altri, proprio per questo, l’hanno osteggiato. Eppure, Utopia — che nella finzione narrativa è il nome di un’isola felice e progredita — tutto è fuorché un progetto. In questo sta la genialità di More nella scelta del nome: deriva da Eu-topos oppure Ou-topos? Ossia, è il nome di un futuro meraviglioso o di luogo che non c’è e non può esserci? Molti nomi, nella storia, confermano questa tensione: a Utopia c’è un fiume che si chiama Anidrio (senz’acqua), un capo che si chiama Ademos (senza popolo) e dell’isola ci racconta Itlodeo (colui che racconta bugie).
Abbiamo da poco lasciato Agostino e sappiamo che l’impossibilità di realizzare uno stato perfetto non è un problema, ma una risorsa: proprio come la città di Dio, così Utopia non appartiene alle tappe della storia dell’uomo. In un mondo tutto diverso, con un’ironia nuova, Tommaso Moro ha forse ripreso la lezione di Agostino: la sua storia non è un programma politico, ma l’occasione per pensare. In questo senso, per il suo stile narrativo, Utopia potrebbe essere anche essere considerata la prima opera di fantascienza. In fondo la fantascienza, quella vera, non è mai solo divertimento, né intende davvero prevedere il futuro; piuttosto ci domanda: cosa accadrà se andremo davvero avanti così? E se invece qualcosa cambiasse radicalmente, come reagiremmo, che ne sarà di noi? Si racconta sempre per il presente, il futuro è uno specchio in cui guardarsi.
Utopia, il libro, è diviso in due parti: si avvia con un lungo dialogo tra personaggi che si interrogano sulla società inglese contemporanea; la seconda parte, invece, è una bellissima e dettagliata descrizione dell’isola di Utopia, delle sue istituzioni, delle sue leggi, delle idee che reggono questo strano e bellissimo mondo che mai sarà.
A raccontare è Itlodeo, esploratore e uomo politico che ha viaggiato molto e che ha vissuto a lungo sull’isola che si trova tra il Vecchio Mondo e il Nuovo, proprio a metà, come un monito. Nonostante la scarsità di contatti, dagli europei i cittadini di Utopia hanno imparato molto: conoscono le istituzioni, l’arte e le idee, ma hanno sempre fatto scelte diverse, fin da quando Utopo, eroe eponimo, conquistò l’isola. Da allora Utopia è governata con incredibile semplicità, funzionalità e razionalità. Ci sono 54 città sull’isola, tutte molto simili; la capitale si chiama Aircastle (Castellinaria) e non è molto diversa dalle altre, sebbene goda di una posizione centrale.
A differenza dell’Inghilterra del ‘500 (per non parlare di noi…) tutti i cittadini di Utopia sanno fare il lavoro più importante: coltivano la terra. Lo fanno a turno: ogni anno una parte consistente di ogni famiglia (di qualunque ceto sociale) si muove dalle città verso le campagne; ogni anno, prima di essere sostituiti, insegnano ai nuovi venuti il lavoro della terra. Nessuno, così, è vincolato a un’unica occupazione: nel tempo che non dedicano alla terra, gli utopiani possono fare altro. Sebbene spesso i trucchi dei mestieri si tramandino di padre in figlio, chi si lascia appassionare da un lavoro diverso può farsi adottare da altre famiglie: così nessuno può odiare il suo impiego.
Il tempo dedicato a esso, poi, è incredibilmente poco: bastano sei ore al giorno, tre prima e tre dopo pranzo. Sono più che sufficienti per produrre tutto ciò di cui i cittadini hanno bisogno, non per qualche dote soprannaturale degli utopiani, ma per la semplice ragione che sull’isola lavorano tutti, proprio tutti. Ecco un altro affondo tagliente sulla società non utopica: da noi c’è un immenso numero di cittadini che non fanno nulla, dice More: nobili, preti, donne, persone troppo ricche e persone troppo povere. Se ragionassimo come gli utopiani, quanta fatica in meno e quanto tempo libero ci sarebbe per tutti!
Soprattutto, a differenza che da noi, nessuno lavora per sé, perché a Utopia non c’è la proprietà privata. Così, nei confronti delle cose, i suoi cittadini mostrano un sincero e assoluto disinteresse: i vestiti sono tutti bellissimi ma uguali, i diamanti sono trastulli per bambini, d’oro sono fatte solo le catene dei prigionieri e i vasi da notte. E, quando cittadini così liberi e intelligenti incontrano i popoli stranieri o le loro ambasciate (per esempio i dignitari degli Anemuli, che significa vanitosi), c’è proprio di che ridere!
Ma è proprio questo, in fondo, il senso della storia di Thomas More: ridere di noi guardando la nostra realtà da un punto di vista diverso. Non siamo destinati di certo a vivere come gli utopiani, ma la loro ironia può forse insegnarci a vivere come dovremmo.